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2022

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/im·pàt·to/ L’intervento di Andrea Fagnoni a L’Età Ibrida

Nell’età ibrida sono le parole a guidarci. 

Attraverso le parole noi filtriamo la realtà che ci circonda e la raccontiamo, e quando non troviamo i lemmi giusti allora li prendiamo in prestito da altri contesti o magari ne creiamo di nuovi, definendo il cambiamento che caratterizza il mondo attraverso la lingua, che così diventa materia ibrida per eccellenza.

Un processo simile è accaduto anche all’ultima parola di questa stagione, una parola relativamente giovane (come è giusto che sia), un’espressione usata soprattutto nella sua accezione figurata: impatto

L’impatto è entrato nel vocabolario italiano a metà del Novecento grazie ai racconti giornalistici degli effetti della bomba atomica su Hiroshima – anzi sulla sua zona d’impatto. Lo stesso è successo anche al verbo impattare, nato nel 1966 per descrivere la prima operazione di atterraggio di un veicolo spaziale sulla Luna (“[la navicella] impatta sulla superficie lunare”, scrive L’Unità il 4 febbraio del 1966), anche se entrambe le parole si diffonderanno soprattutto con il loro significato figurato ad indicare l’influenza, l’effetto o l’impressione che un fenomeno ha su una certa fetta di realtà.

Questo è il significato che gli diamo anche noi a L’Età Ibrida, un modo per riflettere su come lasciare un impatto concreto, un effetto a lungo termine sul territorio, un’eredità positiva che le aziende possono e devono lasciare alle comunità con cui lavorano. Ce ne ha parlato Andrea Fagnoni, Chief Client Officer di Ipsos Italia. “Ipsos ha un grande privilegio”, dice Fagnoni. “Perché ha la fortuna di osservare tanti aspetti diversi della società e studiarne i pattern, le interconnessioni”. 

L’istituto di ricerca ha il privilegio di analizzare la percezione che le persone hanno della realtà, quella a cui poi noi cerchiamo di dare dei nomi, costruendo attorno tutta la nostra vita. Ebbene, i risultati non sono dei più confortanti: Fagnoni ci racconta che l’Italia è il Paese europeo in cui la percezione della realtà è più lontana dai dati. In un certo senso ci stiamo costruendo una realtà su misura, alimentata da una bulimia mediatica non sempre di qualità: il 68% degli intervistati da Ipsos legge soltanto le notizie a cui può accedere gratuitamente, il 58% si informa sulle piattaforme social, il 40% esclusivamente da Facebook. 

Sappiamo bene cosa questo significhi in termini di impatto sulla formazione e sulla cultura del nostro Paese, un Paese che ancora non sa fare i conti con le fake news, con le bolle di filtraggio e le fonti algoritmiche. “Ci stiamo aprendo al futuro con un certo ottimismo”, continua Fagnoni. “Ma la nostra società è attraversata da nuove e diverse fratture, contrapposizioni che non si manifestano più su schieramenti univoci, ma su realtà molto più fluide”. Colti e incolti, pluralisti e populisti, globali e periferici, ma anche digitali e analogici (oppure connessi e disconnessi), garantiti e precari, vaccinati e no vax: le differenze sembrano farsi sempre più aspre, più profonde, fossilizzate su convinzioni semplicistiche e spesso infondate. 

Mai come oggi la società è attraversata da cambiamenti così radicali da esigere la presa in considerazione di tanti temi, dimenticati ormai da troppo tempo. Nel 2021 Ipsos ha registrato la comparsa di nuovi macro-trend accanto a quelli che hanno caratterizzato l’intero 2020: clima e ambiente su tutti, e poi incertezza sul futuro e disuguaglianze sociali, salute e importanza del sistema sanitario, la globalizzazione – rappresentata nella sua forma più brutale sotto le spoglie di una pandemia.

In questo pandemonio valoriale, come lo definisce Fagnoni, marche e imprese giocano un ruolo sempre più fondamentale. Il 56% degli intervistati da Ipsos ha perso fiducia nelle istituzioni, una fiducia che viene riposta nelle aziende e nell’impatto positivo che possono avere sul mondo: il 75% degli intervistati, infatti, vorrebbe che le imprese cambiassero in meglio il mondo, l’81% rinuncerebbe alla convenienza se significasse portare in tavola prodotti più salutari. 

Di questo si parla quando si parla di impatto. “I business leader hanno il dovere di esprimersi rispetto a temi sociali e politici che riguardano il Paese”, dice Fagnoni. “Non ci si può più nascondere, limitare la propria responsabilità. Bisogna agire sulla base dei nostri valori”. Impatto per un’azienda vuol dire prendersi carico di un ruolo politico, di avere cura della propria comunità prima ancora che del proprio business.

Ormai non si tratta più di un consiglio, ma di un mandato: la metà degli intervistati dichiara che le aziende e le marche che non saranno in grado di dimostrare un contributo attivo per la collettività non avranno un futuro sul mercato. Vicinanza, presenza, contributi attivi sul territorio: sono molti i modi in cui un’attività può dimostrare il suo interesse per i propri clienti. Ma soprattutto dovrebbe partire dalla comunità che ha più vicina di tutte: quella dei suoi dipendenti. Ne è convinto l’83% degli intervistati.

“Bisogna avere coraggio per sfidare l’unica regola che ha regolato il mercato fino a oggi: fare più profitto”, dice Fagnoni nel suo intervento. “Eppure oggi più che mai occorre guardare oltre il profitto, facendosi guidare dai valori e dalle proprie convinzioni”. È un invito ad agire, quello di Ipsos, e di raccontarsi con autenticità, anche a rischio di perdere qualche cliente. Perché soltanto attraverso l’identificazione e il riconoscimento agli stessi valori si riuscirà a instaurare un rapporto di fiducia con la propria comunità. I dati lo confermano: il 43% degli intervistati dichiara di aver smesso di comprare alcuni prodotti o servizi perché deluso dal comportamento di certe aziende. 

Volete degli esempi?

A settembre dell’anno scorso l’azienda britannica Fred Perry ha ritirato da tutti i negozi degli Stati Uniti la sua iconica polo nera, perché stava diventando una sorta di divisa per l’estrema destra suprematista. “Fred Perry non supporta e non è legata in nessun modo ai Proud Boys”, si legge nel comunicato. “Il nostro logo è un simbolo della sottocultura inglese e ne rappresenta tutti i valori: di inclusione, uguaglianza e indipendenza”. Ma anche in patria non siamo da meno: dal 2018 Pier Giovanni Capellino dona i profitti della sua azienda, Almo Nature, alla protezione degli animali e alla biodiversità.

La posta in palio è alta: il 58% degli intervistati si dichiara attento ai comportamenti in ambito sociale delle aziende, una presa di posizione che si traduce in un impatto concreto anche sui risultati di un brand. “Non c’è un piano B”, dice Fagnoni. “Non seguire i nuovi imperativi che la società impone significa stare fuori dal mercato”. E quali sono questi imperativi? Occuparsi della qualità della vita dei propri dipendenti, in primis. E poi contribuire allo sviluppo del territorio e delle comunità, coinvolgere le persone e co-creare, ovvero trasformare i consumatori in partner per creare un modello di business diverso. Agire e dimostrare le proprie convinzioni molto prima di raccontarle. Evolvere i linguaggi e i codici. Mettere il proprio business al servizio del valore e mai il contrario. Ma soprattutto, mantenere le promesse. 

Un antico proverbio cinese recita: quando soffia il vento del cambiamento alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento. “Mi piacerebbe che il business di domani inizi da oggi a costruire i suoi mulini a vento”: così chiude Fagnoni la seconda stagione de L’Età Ibrida.

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Paolo Iabichino

Canto da un Natale passato

L’età ibrida si è aperta tra i cieli di New York.

Un giovane francese stava passando alla storia come il primo uomo in grado di camminare sopra le nuvole, in equilibrio su un filo teso sopra uno dei luoghi più simbolici di tutto l’Occidente. Oggi gli orizzonti sono drammaticamente cambiati, eppure quei pochi passi, quel nuovo modo di guardare al mondo, è rimasto come un faro nella nostra memoria.

Soltanto pochi anni prima, nel 1969, tra l’UCLA e Stanford si stava costruendo il primo pezzo di quella rete globale che oggi collega tutto il globo: internet (sebbene ai tempi si chiamasse ancora ARPAnet). Anche in quel caso l’umanità stava camminando in bilico su un certo tipo di filo, anzi su un dedalo di fili che apriva la strada a un mondo nuovo, una realtà che forse appariva incorporea, ma che col tempo ha reso le nostre vite sempre più ibride.

Oggi ci sembra di inseguire un futuro che non riesce più a stare al passo, che non ce la fa a mantenere le promesse in una società che sta cambiando troppo in fretta. Sentiamo parlare sempre più spesso di innovazione, ma c’è un’altra parola, un po’ più antica e rotonda, che abbiamo perso di vista: la parola progresso. Lì sotto si nasconde un concetto inclusivo, una responsabilità verso la propria comunità oltre che verso se stessi, affinché il futuro possa davvero essere di tutte e tutti, non soltanto di chi fa impresa. 

La seconda stagione de L’Età Ibrida si chiude insieme al secondo anno pandemico e ormai è impossibile ignorare tutte quelle istanze che l’emergenza ha inesorabilmente esacerbato. Forse ce ne siamo dimenticati, ma il 2019 si era chiuso con proteste in tutto il mondo e contro ingiustizie di ogni tipo: regimi oppressivi, disuguaglianze, lotta al cambiamento climatico e carovita. Il 27 settembre, la fine della Week for Future ha portato in piazza quattro milioni di persone, attestandosi come la manifestazione ambientalista più partecipata di tutti i tempi.

È come se alla fine di questo secondo anno pandemico ci ritrovassimo tutti intrappolati in una sorta di Canto di Natale, tutti ugualmente alle prese con una lunga notte di riflessione e di spettri, un po’ come l’avarissimo Ebenezer Scrooge. Quel canto continua a parlare al nostro tempo perché racconta una società in cui le dinamiche di potere sono distorte, in cui un sistema malato si consacra come il migliore possibile. In questi due anni abbiamo capito che ritornare alla normalità è impossibile, perché prima non c’era proprio niente di normale.

Tre spettri ci stanno perseguitando: passato, presente e futuro ci chiedono di fare finalmente i conti con le storture della nostra società, con il malcontento che un certo modo di fare mercato ha creato in tutto il mondo. Dobbiamo trovare altre strade per valutare le nostre aziende, strade che non portino soltanto al profitto ma che misurino l’impatto di un’azienda sul territorio e sulla comunità intera. 

Forse in questo sta tutta la magia del Natale, nel fare i conti con se stessi, nel provare a migliorare il mondo un pezzettino alla volta, guardando al passato e provando a scrivere, insieme, un futuro migliore.

 

L’Età Ibrida non sarebbe potuta nascere e crescere senza l’appoggio della Camera di Commercio Milano Monza Brianza Lodi, che ha creduto in questo progetto ben prima dello scoppio della pandemia, quando il mondo sembrava ancora alle porte di un’età di mezzo.

Ringrazio i colleghi di Punto Impresa Digitale e di Mirandola Comunicazione, che con la loro ostinazione hanno tenuto il baricentro di questa rassegna anche nei mesi più difficili dell’emergenza sanitaria. Abbiamo perso la presenza, ma “non ci siamo mai sentiti soli”, come ha detto Franco Anelli, Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. 

Ringrazio Tavolo Giovani che ci ha fatto incontrare le imprese più innovative del nostro territorio, quelle che hanno incarnato davvero lo spirito del secondo tempo: aziende che non si sono mai fermate, neanche durante i lockdown, ma che hanno dovuto reinventarsi, oppure imprese che hanno subito una battuta d’arresto e che sono state capaci di ripartire. 

Grazie a tutti gli ospiti e grazie a tutte le ospiti che ci hanno aiutato a navigare questa epoca nuova tracciando mappe, usando soltanto le parole come bussole. Infine, grazie a Marisandra Lizzi, la madrina di questa rassegna, che mi ha affiancato nella costruzione di questo percorso, lungo una strada verso orizzonti nuovi, tra profitto e bene comune.

Paolo Iabichino