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2020

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L’ambiente in mediazione, intervista a Nicola Giudice

Da qualche anno Camera Arbitrale di Milano, società partecipata dalla Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi, ha avviato un progetto sperimentale per la gestione dei conflitti ambientali attraverso la mediazione. Si tratta di un’esperienza molto innovativa, non solo nel panorama italiano.

La mediazione ambientale, l’esperienza con il Servizio Conciliazione di Camera Arbitrale di Milano

Controversie su tematiche ambientali e come risolverle con la mediazione: ne abbiamo parlato con Nicola Giudice, responsabile del Servizio di conciliazione Camera Arbitrale di Milano.

Nicola Giudice, Responsabile del Servizio Conciliazione della Camera Arbitrale di Milano

Che cosa si intende esattamente per mediazione ambientale?

Come ogni forma di mediazione, ha lo scopo di aiutare due o più parti coinvolte in una controversia a dialogare tra loro per trovare una soluzione soddisfacente di comune accordo. Abbiamo pensato di focalizzare la nostra attenzione sulle vicende ambientali, con uno specifico progetto, perché sono estremamente complesse, sia per il numero di parti coinvolte sia per i problemi che si assommano. E poi perché sono connotate dallo stesso ricorrente problema.

Di cosa si tratta?

La mancanza di comunicazione. Lo si può dire di ogni controversia, in realtà. Ma in ambito ambientale il fenomeno è particolarmente grave perché quando la comunicazione è inefficace, il rapporto tra le parti coinvolte è compromesso e le conseguenze sull’ambiente sono spesso disastrose.

Puoi farci un esempio concreto?

In tutti i casi che abbiamo gestito in questi anni, le parti hanno avuto l’occasione di parlarsi solo quando è iniziata la mediazione. Le liti erano in corso da diversi anni, eppure nessuno aveva mai nemmeno provato ad organizzare un confronto. Molte volte è poi emerso che alla base c’erano informazioni non chiare, incomprensioni, interpretazioni della normativa che potevano essere discusse preventivamente.

Quali sono i casi che di solito vengono gestiti?

Dal condominio dove occorre sistemare il tetto in Eternit all’ente pubblico che ha utilizzato in modo improprio i fondi destinati all’ambiente, dalla realizzazione di un parcheggio che di fatto elimina un’area verde all’impugnazione di un regolamento comunale relativo alla circolazione dei veicoli, fino alla bonifica di terreni inquinati: la casistica è molto ampia e l’impatto davvero importante, sulla salute di tutti ma anche sull’economia e sul lavoro.

Da dove nasce la difficoltà del dialogo?

La materia ambientale è molto ampia e complessa: gli stessi professionisti del settore hanno le loro difficoltà a comprendersi tra di loro, che si tratti di giuristi o di scienziati. E la Pubblica Amministrazione può essere in difficoltà a stare dietro alle tante complessità. Per questo ritengo che un mediatore possa essere determinante per aiutare a promuovere un dialogo efficace tra tutte le parti.

In concreto che cosa fa il mediatore?

Facilita la discussione e fa in modo che tutti i soggetti interessati possano esprimere il proprio punto di vista; al tempo stesso si preoccupa che tutti ascoltino quanto è stato detto e, se necessario, sintetizza e favorisce il confronto sui punti più complessi. Inoltre, cerca di sensibilizzare i partecipanti affinché cerchino di concentrarsi su soluzioni concretamente percorribili.

Una figura che sembra un po’ manager e un po’ psicologo…

Né l’uno né l’altro ma i tratti in comune sono diversi. È vero che i rappresentanti di imprese, piccole e grandi, e della Pubblica Amministrazione, così come i professionisti sono esseri umani alle prese con le loro emozioni e, come detto, con problemi molto complessi da gestire per cui è necessaria un’ottima capacità di ascolto e grande apertura mentale.

Ma non sarebbe meglio prevenire i conflitti, invece di gestirli quando ormai sono scoppiati?

È una riflessione a cui risponde una nuova proposta a cui stiamo lavorando in sinergia con l’Ufficio Ambiente ed Economia Circolare. Stiamo collaborando, infatti, ad un progetto che si prefigge di aiutare cittadini, imprese, P.A. e professionisti a dialogare prima di prendere decisioni e condividere le informazioni in modo da essere tutti consapevoli del futuro che ci aspetta. Sarà un’iniziativa dedicata a prevenire i conflitti, complementare all’attività di mediazione ambientale.

Tavolo di presentazione del progetto e confronto con le Associazioni

25 giugno

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Elogio dello smart working, tra pandemia e necessità

Non avremmo mai immaginato di apprezzarlo così tanto in un’occasione come quella che stiamo vivendo – perché mai avremmo pensato di vivere un’emergenza sanitaria come questa – eppure, davanti ad un’epidemia mondiale e nazionale da Coronavirus (Covid-19), ben venga la tecnologia che permette il lavoro da remoto.

Che cos’è lo smart working

Lo smart working, o lavoro agile, è una modalità di lavoro da remoto, disciplinata in Italia dalla Legge n. 81 del 22 maggio 2017, per favorire ai lavoratori un equilibrio vita-lavoro e per aumentare la competitività delle aziende.

Quando si è cominciato a parlare di smart working anni fa, l‘approccio di molte aziende ed enti, all’inizio, non era molto favorevole. Si pensava quasi che gli smart worker volessero in qualche modo “lavorare di meno”, c’era sicuramente un pregiudizio nell’applicarlo, ancorché ci fossero molte tipologie di lavoro da poter praticare da remoto. Poi, man mano, la mentalità è cambiata e si son cominciati a vedere i molteplici benefici, che non erano pochi.

Con modalità e obiettivi chiari e condivisi, e con i mezzi necessari, i risultati venivano ottenuti, la produttività era in crescita, la soddisfazione dei lavoratori più alta, per non parlare del minor inquinamento prodotto, minor traffico, minori disagi da pendolarismo e quant’altro. Dal 2017 ad oggi, gli smart worker sono aumentati sempre di più.

Oggi, è diventato una necessità.

Smart working e Coronavirus

Dallo scoppio dell’epidemia di Coronavirus in Italia, allo scopo di limitare il più possibile i contagi, il Governo ha, dapprima, raccomandato fortemente l’utilizzo dello smart working, sia per aziende sia per enti pubblici, e dal 4 marzo lo ha reso obbligatorio anche per tutte le pubbliche amministrazioni. Da una sperimentazione si è passati ad una fase “ordinaria”, obbligatoria, come conseguenza delle misure adottate all’interno del primo decreto Coronavirus DL 9/2020. Non in ottica di telelavoro, ma di raggiungimento del risultato, in maniera agile e per obiettivi.

La circolare n. 1 con oggetto “Misure incentivanti per il ricorso a modalità flessibili di
svolgimento della prestazione lavorativa” è stata pubblicata sul sito della Funzione pubblica mercoledì 4 marzo 2020. Le nuove norme prevedono il ricorso, in via prioritaria, al lavoro agile come forma più evoluta di flessibilità per lo svolgimento della prestazione lavorativa, in un’ottica di progressivo superamento del telelavoro e l’utilizzo di soluzioni «cloud» per agevolare l’accesso condiviso a dati, informazioni e documenti.

Tra le misure più avanzate quella secondo cui il dipendente può utilizzare propri dispositivi, pc o tablet, a fronte dell’indisponibilità o insufficienza di dotazione informatica da parte dell’amministrazione, garantendo adeguati livelli di sicurezza e protezione della rete secondo le esigenze e le modalità definite dalle singole pubbliche amministrazioni. [fonte Corriere.it]

Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° marzo, l’Esecutivo prevede che la modalità di lavoro agile possa essere applicata dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, per la durata dello stato d’emergenza (pari a sei mesi come indicato nella Delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020), a tutte le organizzazioni dell’intero territorio nazionale, superando quindi tutte le precedenti disposizioni in materia.

Lo stesso sindaco di Milano, Beppe Sala, ha recentemente dichiarato che lavora tantissimo con telefono e videoconferenze con Skype: “Non c’è occasione migliore per sperimentarlo (lo smart working), non è una concessione, ma una necessità, provateci”, e ancora: “Noi di solito ci muoviamo troppo per partecipare a riunioni, sto facendo tantissime telefonate con skype, e mi dico: perché non le ho fatte prima?”.

E dunque ben venga questo nuovo modo di lavorare, in modo strutturale, più digitale, collaborativo e sostenibile. Anche le scuole si sono attrezzate, il Politecnico ha avviato sessioni di lauree in videoconferenze, tutte le istituzioni si sono mosse velocemente, ed è solo l’inizio.

È indubbio anche, però, che a lungo andare l’isolamento continuativo e forzato (come in questo caso) generi poi malessere e demotivazione.

Tutti ci auguriamo che questa situazione possa finire presto, con la legacy di un nuovo approccio al lavoro che andrà utilizzato non solo in emergenza ma come nuovo strumento lavorativo abituale, innovando un sistema che è rimasto immobile per troppo tempo.

Riferimenti normativi 2020

  • Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19;
  • Decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9, recante “Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”;
  • Direttiva 2/2020, firmata il 12 marzo 2020 dalla Ministra Dadone, relativa all’emergenza Covid-19 e che sostituisce la Direttiva n.1/2020. Il nuovo documento rafforza ulteriormente il ricorso allo smart working, prevedendo che questa diventi la forma organizzativa ordinaria per le pubbliche amministrazioni;
  • Decreto legge “Cura Italia”,  numero 18 del 17 marzo 2020 che contiene i riferimenti allo smart working oltre alle misure per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale e per il sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese per contrastare l’emergenza Covid-19.

L’arte in Mediazione, intervista all’avv. Giuseppe Iannaccone

Mediare è un’arte, ma anche l’arte ha bisogno di mediazione.

Quando ci si trova in disaccordo prima, durante o dopo una contrattazione, e l’oggetto del contendere è un’opera d’arte, non si sa bene come fare e a chi rivolgersi.

La Camera Arbitrale di Milano, Azienda Speciale della nostra Camera di commercio e leader nella Mediazione, da 4 anni ha ideato ADR (Alternative Dispute Resolution) Arte, per cercare di risolvere le controversie nel mondo dell’arte.

Si tratta di un progetto che, oltre a fornire i vantaggi tipici della Mediazione tradizionale evitando il processo ordinario (costi contenuti, tempi rapidi, non obbligo di assistenza legale ecc…), è tagliato su misura per il contesto artistico, ovvero:

  • soddisfa le esigenze di riservatezza e confidenzialità tipiche del mercato dell’arte;
  • la consensualità del procedimento di mediazione aiuta le parti a mantenere vivi i propri rapporti professionali (che nel mondo dell’arte sono spesso di lungo corso);
  • le parti possono scegliere un mediatore, imparziale ed esperto del settore;
  • le parti possono farsi assistere da professionisti d’arte (es: art advisor) e da interpreti linguistici;

Le collezioni d’arte sono sicuramente il frutto in primis della passione, ma stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante in ambito finanziario, come patrimonio familiare e d’impresa. Per questo ADR Arte si trova sempre di più a gestire i conflitti in ambito civile-commerciale per annullare contratti di beni mobili e da collezione, supportando i privati contro ad esempio le banche; il supporto avviene in caso siano stati consigliati investimenti rischiosi senza la dovuta trasparenza, come si è verificato recentemente per acquisti di diamanti come beni-rifugio.

Incontriamo nel suo studio milanese un noto avvocato, amante dell’arte e collezionista, da tempo collaboratore di Camera Arbitrale, che ci racconta la sua passione per l’arte e il mondo delle controversie in questo settore.

Intervista all’avv. Giuseppe Iannaccone

Quando ha cominciato a interessarsi di arte?

La passione per l’arte nasce in un momento molto particolare della mia vita professionale. Quando ero un giovanissimo avvocato e ho avuto la fortuna e l’onore di svolgere dei processi molto importanti, ero veramente molto stressato dal lavoro e anche dal peso di responsabilità che erano connessi a quegli incarichi. L’arte mi ha molto aiutato, l’avevo definita la mia stampella dell’anima. È chiaro che poi non lo è più stata perché ho trovato il mio equilibrio sia nella professione sia nella vita privata; ora l’arte è diventata per me una inseparabile compagna di vita. 

Quali sono le controversie e i problemi che si riscontrano maggiormente in questo ambito?

La controversia-tipo è generalmente quella del falso, ma il collezionista esperto non cade mai nella trappola, perché basta seguire poche linee guida e i falsi si possono evitare senza difficoltà: è fondamentale avere un criterio rigoroso nella scelta delle opere. Per esempio, se si compra un’opera storica, si deve aver cura di procurarsi la storia dell’opera, oltre all’autentica che in questi casi non basta. Invece se si risale alla storia dell’opera, la riconduci all’artista e quindi ne eviti il falso. Inoltre è importante trattare con gallerie autorevoli, che sostengono l’artista e che già controllano con serietà l’autenticità delle opere.  Se l’artista contemporaneo è poi vivente, allora il rischio del falso non esiste. 

Più o meno in che percentuale i collezionisti decidono di rivolgersi a Camera Arbitrale e in che percentuale si fermano a una soluzione bonaria?

Per rivolgersi a Camera Arbitrale c’è bisogno di un contratto. Quindi soltanto le controversie che nascono da un contratto, e quindi da una compravendita, che sia stata prima disciplinata per iscritto, può dar luogo a un giudizio arbitrale. Ora il mondo dell’arte è un mondo dove la legge ha poco diritto di cittadinanza, nel senso che non ci sono quasi mai contratti scritti e quindi non è facile giungere alla Camera Arbitrale per la soluzione delle controversie perché appunto le parti difficilmente sottoscrivono clausole arbitrali. Bisognerebbe moralizzare questo settore, a mio giudizio, dargli delle regole, cercare di disciplinare anche per iscritto gli accordi che presiedono gli acquisti delle opere d’arte e prevedere poi clausole arbitrali che credo siano nella convenienza di tutti. Direi che c’è ancora molto lavoro da fare per arrivare a un mondo dell’arte regolamentato e civile.