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L'Età Ibrida

Il controcanto | La sostenibilità che inquina

Quattro monaci sono chinati in avanti, assorti. Le gambe incrociate, il respiro intrappolato dentro una mascherina, i movimenti ripetitivi ma controllati come in una coreografia ben ponderata. Sopra di loro una cupola rossiccia fatta in legno e tessuto li ripara dalla luce e dal chiasso che c’è fuori.

Siamo nel tempio di Mahabodhi a Bodh Gaya, in India.

Nel suo cortile si trova un albero che da più di cent’anni offre le sue fronde ai fedeli. Si tratta dell’albero della bodhi, uno dei luoghi sacri più importanti della tradizione buddhista. Proprio in questo luogo, sotto i rami di un antenato di questo fico sacro, il Buddha venne colto dall’illuminazione.

Ogni due o tre anni, circa mezzo milione di pellegrini si riuniscono qui per festeggiare la Kalachakra, un rito collettivo che dovrebbe risvegliare il seme di quell’illuminazione, un seme presente in ogni essere vivente.

Ne La ruota del tempo, il documentario di Werner Herzog che racconta la cerimonia del 2002, il regista tedesco incontra un monaco che compra tre uccellini da un bambino per strada e poi li libera. “Perché liberi gli uccelli?”, gli chiede. “Perché tutti gli esseri viventi sono uguali”, risponde il monaco. “Tutte le creature hanno diritto a diventare un Buddha, ma per diventare un Buddha bisogna essere liberi”.

Per simboleggiare questa unità del cosmo, la manifestazione ruota attorno alla creazione di un quadro: il mandala di sabbia. Per un occidentale non è facile capirne il significato. Si tratta di una composizione geometrica circolare che rappresenta la reintegrazione dell’esperienza individuale nell’unità primordiale del cosmo. Il Dalai Lama, sempre nel documentario, lo descrive così:

Il vero mandala prima si medita sul vuoto, il sunyata. Quindi la mente, che è completamente assorbita da quella natura suprema, si trasforma nel mondo fisico. E così è per il mandala… un mandala interiore. E contiene anche delle divinità. Sono circa settecento o settecentoventi… ora non ricordo. [ride] Così, tutte queste divinità in luoghi diversi simboleggiano tanto la struttura del nostro corpo quanto la cosmologia. Pertanto, l’elemento principale è la visualizzazione. Non un mandala esteriore, ma un mandala interiore. Un certo tipo di visualizzazione”.

Due squadre di quattro monaci lavorano instancabilmente per parecchi giorni dalle sei di mattina fino a mezzanotte per realizzare questo quadro complessissimo. A guidarli, una biblioteca colma di istruzioni. Si inizia dal centro, che rappresenta la ruota del tempo, e poi si passa alle periferie. I cilindri che i monaci usano per disegnare con la sabbia fregano gli uni contro gli altri provocando un rumore come un frinire di cicale. Attorno a loro i Lama di alto lignaggio intonano cantilene, fanno risuonare piccole campane, abbozzano danze sacre.

Pian piano si forma una figura, una sorta di mappa. I toni sono quelli dell’ocra, dell’arancio e del verde. Sì, sembra proprio una mappa, una carta del cielo concentrica, solo che noi non sappiamo dove siamo né quale sia la meta. Ci sentiamo come dei viaggiatori pronti a incamminarci verso terre sconosciute, dove ogni posto è casa.

 

Ripercorrere il cerchio

Mandala in sanscrito significa cerchio, che più che una forma è un archetipo dell’inconscio collettivo. Fin dall’antichità, infatti, il cerchio ha rivestito significati spirituali legati al tempo, alla ciclicità delle stagioni e all’infinito.

I Babilonesi furono i primi a usare il cerchio come una misura per il tempo, formulando il concetto di mesi e di stagioni all’interno dei quali ancora oggi noi ci muoviamo. I Greci rappresentavano la ciclicità del tempo col simbolo dell’Uroboro, un serpente che si morde la coda. Nel Cristianesimo la vesica piscis è un simbolo a forma di mandorla che si ottiene dall’intersezione di due cerchi. Richiama la comunicazione fra due mondi, il piano materiale e quello spirituale, l’umano e il divino, e la loro unione.

All’interno del cerchio possiamo trovare molte delle risposte che stiamo cercando, persino quelle legate alla crisi economica che stiamo vivendo. La sua forma è un’aspirazione, una visione, proprio come il mandala. E seguire quel percorso infinito paradossalmente potrebbe portarci abbastanza lontano.

Perché l’unico modo per uscire dal pasticcio in cui ci ha ficcato un certo tipo di capitalismo tossico è percorrere la traiettoria segnata da un cerchio, ricostruire una filiera ignorata per anni, ridisegnare il proprio business in un’ottica olistica calcolando anche tutta quella catena di conseguenze che inneschiamo al di fuori del nostro settore, facendo i conti con l’impronta che la nostra realtà ha nell’ecosistema in cui lavoriamo.

Oggi siamo in un mondo transepocale, nel senso che stiamo entrando in una nuova epoca.

Il digitale ha cambiato le carte in tavola e non possiamo più permetterci di rispondere ai vecchi problemi con la mentalità che ci ha portato fin qui. “L’ecosostenibilità è un prerequisito per stare sul mercato.

È una pretesa urgente e indispensabile, non potrà più essere un vanto pubblicitario o un’invenzione di marketing” recita la prima tesi del Newtrain Manifesto.

Ma attenzione, perché l’ecosostenibilità non vuol dire soltanto prendersi cura dell’ambiente, ma piuttosto creare un modo di fare mercato che non crei disuguaglianze, che dia accesso a tutti alle stesse possibilità, che riveda i paradigmi che stanno portando al collasso l’intero pianeta.

Ecosostenibilità vuol dire cambiare completamente la nostra vita e farlo in maniera profonda. Visualizzare un mondo diverso per noi e per i nostri figli, mettersi in risonanza con l’universo, rimanere sempre in ascolto, cambiare rotta se necessario, creare un’economia circolare che non abbia al centro il profitto ma il pianeta. O magari la ruota del tempo.

Oggi partiamo da qui, da questo mandala che proveremo a costruire insieme.

 

Il vero costo dei jeans

La mattina del 23 aprile del 2013 a Savar, un sub-distretto bengalese a 24 chilometri da Dacca, alcuni ispettori della sicurezza dichiararono il Rana Plaza un edificio inagibile e pericolante a causa di diverse crepe comparse sui muri, che si stavano facendo sempre più ampie e profonde.

La struttura a otto piani era stata costruita abusivamente da un giovane imprenditore su quel che restava di un lago prosciugato in maniera artificiale. La gran parte delle società che aveva sede al Rana Plaza decise di chiudere, mentre i proprietari delle cinque fabbriche tessili, che producevano vestiti per tutti i più grandi marchi di moda del mondo, costrinsero i propri dipendenti a recarsi a lavoro nonostante i divieti, minacciando ripercussioni economiche.

Il 24 aprile, alle 8:45, l’edificio collassò uccidendo 1.134 persone, per la maggior parte donne. Si tratta del più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia e il cedimento strutturale accidentale più letale della storia moderna.

All’indomani del crollo più di duecento brand internazionali si sono mobilitati per sottoscrivere accordi e contratti in modo da portare nelle 1.600 fabbriche bengalesi condizioni di lavoro più sicure. Ma dopo otto anni di lutto la situazione sembra ancora molto critica.

A novembre del 2020 dodici persone sono state uccise da un’esplosione in uno stabilimento tessile del Gujarat, in India. Quest’anno, a marzo, venti persone sono morte e decine sono rimaste ferite per un incendio divampato in una fabbrica di abbigliamento de Il Cairo, dove una decina di giorni dopo è scoppiato un opificio causando la morte di otto lavoratori e ferendone altri trentanove. A inizio luglio, a Rupganj, sono morti cinquantadue operai in un incendio divampato all’interno di un’azienda alimentare.

La pandemia non ha migliorato le cose. Le chiusure in occidente hanno portato alla cancellazione di ordini per miliardi di dollari, mentre l’aumento dei casi di Covid in Bangladesh ha fermato tutte le attività fuorché quelle del settore tessile, rappresentando un ulteriore rischio per i lavoratori. Aumentano le attività antisindacali e le denunce per molestie sul posto di lavoro, mentre rimangono i problemi legati alla protezione sociale e ai salari troppo bassi.

Sostenibilità vuol dire anche questo. Vuol dire creare un ecosistema duraturo, equo e di lungo periodo, un ecosistema che racconti un nuovo modo di stare sul mercato che rispetti le persone e l’ambiente che ci accoglie.

Secondo le previsioni di uno studio del WWF, il fabbisogno di abbigliamento continuerà a crescere, passando dai sessantadue milioni di tonnellate del 2015 a poco meno del doppio per il 2030. Oggi si fabbricano circa cinque miliardi di jeans l’anno. Ogni pezzo richiede l’utilizzo di 7.500 litri d’acqua, per quelli scoloriti dovreste aggiungerci altre centinaia di litri e agenti chimici che stanno inquinando i terreni dei paesi più poveri.

Il problema è che l’industria della moda riguarda tutto il mondo, perché unisce dentro un unico spazio coloro che i vestiti li fanno, quelli che li vendono e poi tutte quelle persone che quei vestiti finiranno per indossarli. È impossibile deresponsabilizzare anche soltanto un tratto di questa filiera: è il mondo che ce lo chiede.

Dietro i prezzi bassi di un certo tipo di fare mercato occorre tenere il conto anche di tutti quei costi che sta pagando qualcun altro, da qualche altra parte del mondo: il costo dell’inquinamento, il costo dello sfruttamento, il costo del consumismo incurante.

Di fronte a questi disastri ci sarebbe un altro tipo di ecosistema che andrebbe salvaguardato: quello dell’immaginario. In un momento in cui avremmo bisogno di azioni di bonifica semantica per evitare le banalizzazioni, stiamo assistendo a ipernarrazioni che depotenziano l’urgenza.

Quello che è successo quest’estate in tutto il mondo è significativo: incendi, alluvioni, il Covid stesso. Sono tutte conseguenze dentro una complessissima catena di azioni e reazioni. Come se Gea si stesse ribellando, come se si stesse riprendendo velocemente tutto quel che le abbiamo tolto.

Dobbiamo farci pace, in fretta.

Le parole della sostenibilità in questo momento non possono più essere sprecate. E’ necessario che vengano seguite da azioni concrete in modo da evitare che sulla sostenibilità si giochi una partita narrativa o una narrazione tossica.

Venerdì scorso Banca Etica ha chiuso tutte le sue filiali per partecipare a Fridays For Future, per spingere i propri soci e clienti ad abbracciare la lotta contro il cambiamento climatico. Il giorno delle elezioni americane Patagonia ha chiuso tutti i suoi negozi per permettere ai propri dipendenti di andare a votare. È questo il significato di un’azione di sostenibilità. Nel 2021 vedere una pagina quattro colori che pubblicizza il primo bilancio di sostenibilità vuol dire essere in ritardo. Tremendamente in ritardo.

La sostenibilità è una pretesa urgente e indispensabile, non può più essere un vanto pubblicitario o un’invenzione di marketing. Un vecchio adagio in pubblicità sostiene l’importanza del “purché se ne parli”, non importa se bene o male, l’importante è che se ne parli. Niente di più pericoloso in questo momento storico per brand e per la sua reputazione.

Oggi la cosa più difficile da custodire e trasmettere è la coerenza del proprio punto di vista sul mondo.

Sono in tanti ad aver abdicato per rincorrere nuovi target, per sbandierare valori e principi etici con la speranza di sedurre le sensibilità delle nuove generazioni di consumatori.

Cambiate rotta, il nostro mondo è in fiamme.

 

Sì, viaggiare: ma a che prezzo?

Ma l’industria della moda non è la sola a dover cambiare passo.

La sostenibilità dei luoghi passa anche attraverso il turismo e alla sua capacità di ridisegnare il paesaggio, e con loro anche gli immaginari. Per molto tempo abbiamo vissuto i nostri viaggi con una sorta di rapacità intellettuale, nutriti da iperboli narrative e dinamiche iperconsumistiche che hanno finito per stravolgere località e orizzonti.

A pagarne il prezzo, anche in questo caso, sono stati soprattutto le destinazioni stesse e gli addetti ai lavori. Perché cambiare narrativa vuol dire cambiare il modo di vedere le cose. Vuol dire creare una realtà diversa per lo spettatore che entra nel nostro universo seguendo nuove regole.

Così se raccontiamo un luogo come un prodotto, come qualcosa di facilmente accessibile attraverso cataloghi di vendita o hashtag sui social media, corriamo il rischio di perdere una connessione sincera con l’identità di quel posto, con tutte quelle esperienze che definiscono il carattere di un territorio. Quel che resta sarà solo l’istanza consumistica, il racconto dell’esperienza a scapito della conoscenza.

Perché, vedete, proprio dentro il concetto di esperienza abbiamo ridisegnato questo settore. Pensate a come sono cambiate le tracce che un viaggio lascia dietro di sé. Un tempo si scrivevano le cartoline, documenti che racchiudevano un certo valore testimoniale. Una cartolina raccontava un affetto, un pensiero riferito al destinatario, un certo tipo ipersemplificato di corrispondenza. Spero di non sembrare un nostalgico, ma un post su un social media, narrativamente, sposta il punto di vista dalla rappresentazione del luogo alla vetrinizzazione dell’esperienza. Si porta appresso un doppiofondo narcisistico che ostenta una cornice e non il quadro stesso.

Quando si preferiscono le dinamiche dei like a quelle delle narrazioni valoriali, il racconto si intossica e si piega a una grammatica costruita a tavolino, dentro le stesse logiche iperconsumistiche che hanno portato all’overtourism. L’industria del turismo è stata una delle prime ad appropriarsi di un marketing esperienziale, cucendo addosso al prodotto una qualche esperienza, ostentata e piatta, che non ha portato alla scoperta di nuovi luoghi. Piuttosto ci ha condotto alla creazione di grandi melasse esperienziali, cluster di esperienza da ricreare in qualsiasi luogo e sotto qualsiasi forma. L’identità dei luoghi viene confezionata e consumata, invece di essere narrata e ascoltata, conosciuta a fondo e poi esperita con consapevolezza.

Raccontare porta con sé una responsabilità enorme, perché a seconda di come parliamo siamo in grado di attrarre pubblici diversi.

In funzione delle nostre parole possiamo guidare questa industria verso una voracità narcisistica oppure lungo una strada fatta di incontro e confronto. Anche se questo lavoro richiede fatica e impegno. E non sto parlando soltanto agli addetti ai lavori che del turismo hanno fatto la loro vita, ma anche a tutti gli enti, le istituzioni, le amministrazioni e poi a te che leggi e a me che scrivo, ai turisti stessi, a quelli che i viaggi li fanno.

Un nuovo senso di responsabilità ci deve investire per abbracciare davvero quella sensibilità civica che sta occupando sempre più spazio nel dibattito sociale, per diventare una parte attiva di questi mutamenti, sia come professionisti che come clienti, in un racconto che protegge e non consuma, che ricerca e non ostenta.

 

Il digitale ci salverà? Nì.

Con l’arrivo della pandemia le nostre vite si sono fatte sempre più ibride.

Gli strumenti digitali ci hanno aiutato moltissimo nella gestione di grandi volumi di dati. Hanno permesso agli scienziati di tutto il mondo di collaborare anche a grandi distanze. Gli Stati hanno trasferito online la maggior parte dei loro servizi. Le aziende hanno spostato le loro attività (quando possibile) in smart working, ma non solo. Perché anche nella nostra vita quotidiana ci siamo affidati sempre di più al digitale, che è diventato ormai un vero e proprio habitat, un posto in cui leggiamo, parliamo, stiamo con i nostri amici, lavoriamo, ci rilassiamo, studiamo il mondo.

Da un certo punto di vista, il digitale ci ha salvato la vita, o almeno ci ha dato parecchi strumenti per superare questa crisi globale. Eppure non possiamo usare la tecnologia come se fosse la panacea per tutti i mali.

Perché se è vero che spostare un certo tipo di attività online può aiutare a ridurre il nostro impatto sull’ambiente, è necessario anche incentivare un’economia circolare e supportare la decarbonizzazione in tutti i settori per far sì che ci sia un reale cambiamento nel mondo.

La verità è che fino a oggi le transizioni digitali hanno perpetuato gli stessi modelli di crescita e di consumo delle risorse responsabili del riscaldamento globale. E le prospettive per il futuro non sono rosee.

Nel 2008 le tecnologie digitali hanno contribuito per il 2% alle emissioni globali di CO2, nel 2020 sono arrivate al 3,7% e – secondo le previsioni di The Shift Project – nel 2025 toccheranno l’8,5%.

E non è soltanto una questione demografica. I dispositivi connessi stanno crescendo di un 10% l’anno, molto più velocemente degli utenti di internet, che invece registrano un aumento annuo del 6%. Il mondo digitale è in continua espansione alimentato dalle nuove tecnologie dell’internet delle cose, dalla robotizzazione, da tutti i dati che quotidianamente aziende, industrie e centri di ricerca si scambiano sui propri utenti. Certo, possiamo metterci del nostro: guardare dieci minuti di un video HD in streaming ha lo stesso impatto energetico di tre minuti di un forno a piena potenza. Possiamo consumare meno.

Ma il problema non sta soltanto in quanto usiamo i dispositivi digitali.

Il cloud è un’infrastruttura che si sta facendo spazio nel nostro mondo fisico attraverso cavi, router e satelliti, ma soprattutto con enormi data center.

Uno studio del 2017 di Greenpeace racconta l’impronta energetica delle grandi aziende digitali negli Stati Uniti. La Apple è tra le più virtuose usando l’83% di energia rinnovabile, mentre Google è soltanto al 56%, la Microsoft al 32% e Amazon – di cui si sa molto poco – si muove ancora comprando crediti di compensazione.

Certamente l’efficienza energetica dei dispositivi e delle infrastrutture digitali migliorerà ed è sempre più difficile calcolarne l’impatto reale. Ma una cosa è certa: non possiamo applicare gli stessi schemi iperconsumistici che ci hanno portato fin qui anche a questo tipo di industria. Di tutta la vita di uno smartphone, l’utilizzo da parte dell’utente consuma una frazione molto piccola di energia se paragonata a quella necessaria a estrarre i materiali che li costituiscono, a produrre l’oggetto in sé, a trasportarlo nei negozi e poi a smaltirlo.

Secondo The Shift Project produrre un grammo di smartphone richiede un consumo di energia 80 volte superiore a quello necessario a produrre un grammo di un’auto a benzina.

Per non parlare dell’impatto che ha sulla società.

L’estrazione del coltan e del cobalto è ancora causa di sanguinosi conflitti in Congo, soprattutto nella regione del Kiwu dove si trova l’80% delle riserve mondiali. Questi due materiali sono indispensabili proprio per ottimizzare il consumo di energia di qualsiasi dispositivo digitale e per questo vengono sistematicamente saccheggiati da fazioni di etnia locale finanziate da società di mezzo mondo. Un rapporto Onu del 2002 riporta che le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali in Congo favoriscono i conflitti civili dell’area.

Inoltre, nelle miniere spesso sono impiegati bambini e ragazzini perché più agili e adatti agli spazi angusti. La mortalità è altissima. Secondo Medici Senza Frontiere in tanti muoiono anche per le malattie che questi due materiali portano: cancro, danneggiamento agli organi interni, difetti genetici nella prole e malattie all’apparato linfatico.

Un digitale che sia sostenibile deve prendersi carico di questo mondo interconnesso. Deve mettere in dialogo le scienze dell’informazione con quelle ambientali, l’ingegneria con le scienze politiche. Deve investire su fonti energetiche pulite e rinnovabili, deve innescare processi virtuosi mettendo in conto il costo di tutto il processo produttivo.

E poi c’è un problema di governance, di inquinamento dell’infosfera. Vanno definiti diritti fondamentali e inalienabili per quel che riguarda i dati sensibili delle persone, con un’infrastruttura giuridica condivisa per tutti i paesi del mondo, in cui il conflitto tra i grandi player del digitale possa essere regolato e controllato.

Serve trasparenza e consapevolezza.

Serve una nuova visione del mondo.

 

Oltre il brand activism

I consumatori stanno cambiando.

Stanno cambiando in modo così profondo che la stessa parola consumatore non funziona più. Secondo uno studio di Ipsos quasi la metà degli intervistati dichiara di aver smesso di comprare prodotti o usare servizi perché deluso dal comportamento di certe aziende. E più di un terzo crede che sia compito dei brand incentivare comportamenti responsabili per la società. Certo, questo ci racconta un doloroso processo di perdita di fiducia nelle istituzioni, ma anche un ruolo diverso che le imprese hanno nella vita della gente, per il loro impatto che hanno sul mondo e per tutte le responsabilità che ciò comporta.

La fiducia è un punto cruciale: dobbiamo fare i conti con uno scetticismo di fondo. Ormai sembra che qualsiasi oggetto si proponga di salvare il mondo ed è impossibile credere a tutti. La narrazione deve tradursi in azioni concrete, in un interesse sincero verso i propri dipendenti, in azioni volte a proteggere il proprio territorio, in posizioni chiare sui temi dei diritti civili, sul razzismo e sulla parità di genere.

La stragrande maggioranza degli intervistati da Ipsos crede che le imprese debbano ascoltare i propri clienti per agire in modo responsabile su comunità e ambiente.

In altre parole, le persone vogliono essere parte attiva nella costruzione di un brand, proponendosi di partecipare anche con azioni concrete purché utili a migliorare davvero la vita della gente.

Il Brand Activism è un punto di partenza fondamentale in questo processo. Ma nel momento in cui finisce per assumere un carattere consulenziale, allo scopo di disegnare strategie funzionali per le grandi multinazionali, corre il rischio di dissolversi, di perdere tutta la sua forza.

E oggi, molto semplicemente, non possiamo più permettercelo.

La sostenibilità non può assumere i tratti di un makeup narrativo, ma deve essere inteso in maniera costitutiva. Kotler e Sarkar in Brand Activism riportano una sorta di catalogo per tutte quelle aziende che vogliano diventare attivisti, ma questa strategia finisce per portare a galla dei limiti enormi. In quest’ottica, l’etica è un asset e la prospettiva sostenibile si sviluppa in termini risarcitori.

Non possiamo illuderci che all’improvviso tutte le grandi multinazionali abbiano a cuore le sorti del mondo. La maggior parte, in effetti, sta soltanto cercando di rincorrere il favore degli investitori, che oggi mettono i propri soldi soltanto su realtà sostenibili inseguendo a loro volta i nuovi cluster di consumatori, la generazione Z.

Secondo una ricerca dell’agenzia francese Babel, tre consumatori su cinque dubitano della sincerità delle marche che sbandierano il purpose e l’impegno etico. Sono soprattutto giovani che sono pronti a mettere in discussione le proprie abitudini, perché stanno diventando sempre più consapevoli dei propri acquisti e sanno bene da che parte stare.

Oggi, come mai prima, è necessario scegliere da che parte stare.

Se si vuole andare incontro a questo tipo di consumatore non è sufficiente creare una bella campagna pubblicitaria, un esercizio retorico che non sia seguito da azioni concrete.

Basta vedere quel che è successo con l’arrivo della pandemia: il Covid ci ha urlato in faccia tutta la fragilità del sistema consumistico. Ha puntato una luce su tutta una filiera di lavoratori a lungo dimenticati, ma che si sono rivelati essenziali per la nostra sopravvivenza. Ci ha portato a riscoprire un certo tipo di fratellanza, una solidarietà che avevamo dimenticato, esasperando una tensione che era già nell’aria.

L’attenzione alle tematiche ambientali, alle filiere, ai lavoratori, alle famiglie, alle diversità di ogni tipo, segna un nuovo modo di comprare, ancora prima che di produrre.

E soltanto un nuovo modello di business può andare incontro a queste tensioni. Quanti di noi sono disposti a prendersi davvero questo impegno? Quanti sono pronti a rivedere le proprie filiere, ridimensionando le prospettive di crescita in una logica sostenibile?

Del Brand Activism di Kotler e Sarkar salverei soprattutto il sottotitolo: dal purpose all’azione. È questa la dimensione in cui dobbiamo muoverci. Un’adesione sincera ai valori della sostenibilità, recuperando il perché di quel che stiamo facendo. È l’urgenza di queste tematiche a chiedercelo. Si tratterà di un processo lento, progressivo e organico, ma è un processo che è destinato a durare a lungo.

Non si tratta di aver pazienza, ma di lavorare con onestà a un business plan basato sul purpose.

Io sono figlio di commercianti, so molto bene che cosa significhi alzare la serranda e aspettare che i clienti arrivino.

Ma in una prospettiva in cui cambiano le logiche del mercato, soltanto chi si trasformerà in maniera autentica e credibile guiderà il mercato che verrà.

Tutti gli altri arrancheranno cercando di appropriarsi di un vocabolario che per loro non ha significato.

Scegliete, ora.

Cercate di immettere nel mondo tutto quel che di buono c’è nella vostra attività, rimette in circolo la vostra visione del mondo. La vostra visualizzazione interiore del mondo.

 

In qualche modo si ritorna sempre al cerchio. Una volta finito il mandala di sabbia, i monaci lo espongono ai fedeli dietro una spessa lamina di vetro. È indispensabile proteggerlo perché anche soltanto un respiro potrebbe danneggiarlo, nonostante la celebrazione della Kalachakra finisca proprio con la distruzione del mandala da parte del Dalai Lama.

Si spazzola via fino all’ultimo granello di sabbia, si raccoglie tutto in un’anfora e poi si getta nelle acque del fiume Phalgu dove scorrerà verso il resto del mondo come una preghiera. Fa un po’ effetto vedere tutta quella tensione, quell’attenzione e cura buttata via. M il punto è proprio quello di dimostrare la provvisorietà di tutte le cose terrene. Di celebrare la forza distruttrice come quella creatrice, come due facce della stessa medaglia.

 

Paolo Iabichino

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