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L'Età Ibrida

Ritorno al Futuro | L’intervento di Paolo Iabichino a L’Età Ibrida

Abbiamo iniziato questa rassegna su un filo teso, in bilico tra due mondi.

Ci siamo avventurati alla ricerca dei fossili de L’Età Ibrida quando ancora non sapevamo definire i confini di questa nuova era. Ci sentivamo alla vigilia di una trasformazione. Alle porte di un processo di cambiamento che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di pensare, le nostre vite, i nostri lavori. Lì dentro, abbiamo scovato un miscuglio eterogeneo di punti di vista, nuove competenze, pessime abitudini e metodi di lavoro da ridisegnare.

Complice la pandemia, oggi ci ritroviamo in un mondo completamente trasformato. La vita umana si confronta con strumenti tecnologici sempre più sofisticati ma non sempre nostri alleati. In un certo senso siamo nel Secondo Tempo dell’età ibrida. Un tempo in cui non c’è più spazio per i dogmi, un momento che esige riflessione, interpretazione e ascolto.

È così che abbiamo fatto anche a L’Età Ibrida.

Abbiamo dedicato ogni incontro a una parola, perché per descrivere questo tempo ci vogliono parole nuove, ma anche nuovi significati da attribuire a parole antichissime. Attraversandole, ci siamo sentiti proprio come il nostro funambolo, in bilico certo, ma senza la paura di cadere. Per questo durante il penultimo incontro della stagione Paolo Iabichino, l’ideatore de L’Età Ibrida, ha ripercorso tutte le parole che abbiamo analizzato. Per vedere quanta strada abbiamo fatto e quanta ancora ne rimane da percorrere.

Pronti per questo viale dei ricordi?

 

#phygital

L’abbiamo già detto. La vita ibrida se ne sta in bilico tra due mondi. Tra due realtà parenti ma complementari che si incontrano per creare qualcosa di nuovo, una sorta di mutazione. Perché phygital non indica soltanto la spinta alla colonizzazione del mondo digitale. Ma anche la creazione di porti sicuri nell’aldilà che ci garantiscano esperienze appaganti nell’aldiqua.

Come scrive Nicolò Andreula nel suo libro #Phygital — Il nuovo marketing tra fisico e digitale: “Phygital è un concetto in divenire che non si focalizza tanto su cosa fare, quanto su come fare le cose a cavallo tra due dimensioni”.

 

#contaminati

L’età ibrida ci ha portato a vivere esistenze aumentate, profondamente intrecciate a strumenti digitali e in dialogo costante con algoritmi spesso poco trasparenti. Filosoficamente, ci sono ancora molti temi che come società non abbiamo affrontato: il diritto alla privacy e il diritto all’oblio per esempio, ma anche problemi sociali come il cyberbullismo e la propaganda, i limiti della libertà di espressione e la manipolazione. L’inquinamento del nostro habitat phygital è fuori controllo e in questo la tecnologia non ci può proprio aiutare. Per capire come affrontare queste sfide servono soltanto gli esseri umani, per costruire l’età ibrida servono i contaminati.

“La contaminazione non è più una possibilità, è un’urgenza”: così scrive Giulio Xhaët nel suo #Contaminati – Connessioni tra discipline, saperi e culture. Nei suoi anni da formatore sulle nuove professioni digitali, Xhaët si è accorto di come siano le stesse aziende a richiedere, sempre di più, candidati ibridi. Il motivo è semplice. Un contaminato conosce la diversità e riesce ad accedere a diversi mindset a seconda del problema da risolvere, è più elastico e poliedrico. Non c’è algoritmo in grado di realizzare queste connessioni, in grado di cambiare il mondo. Non c’è algoritmo più potente dell’algoritmo umano.

 

#linguaggi

“Una lingua ci rimane addosso come gli anelli di accrescimento sul tronco di un albero”, ci ha raccontato la linguista Vera Gheno nel suo intervento a L’Età Ibrida. “Un esperto vi può leggere un periodo di siccità o magari delle piogge intense, ma anche il passaggio di parassiti o persino un’esplosione nucleare, come accade nei dintorni di Chernobyl”. Nella lingua succede più o meno lo stesso. Le tracce di quel che ci accade, come individui e come società, rimangono impigliate tra le maglie della lingua, che cresce, respira, si trasforma insieme agli stessi individui che la tengono in vita.

Nell’era della comunicazione non è più possibile non sapere usare bene le parole. Perché sono proprio le parole a costruire — come tanti piccoli mattoncini — questo nuovo habitat in cui viviamo.

 

#empatia

Una vita ibrida comporta parecchi rischi. Vivere attraverso lo schermo di uno smartphone o di un computer vuol dire costruirsi un avatar nell’aldilà che sia abbastanza simile a quello dell’aldiqua, ma non proprio. La nostra vita digitale sembra specchiarsi in un’immagine deformata, in una realtà distorta e amplificata. A volte, la distanza che sentiamo tra queste due immagini di noi stessi ci fa persino dimenticare chi siamo. Ci fa dimenticare che dietro qualsiasi schermo c’è un altro e non soltanto un avatar. A volte, dimentichiamo che il digitale è soltanto un modo per metterci in contatto con altre persone, con altre vite, spesso molto lontane dalle nostre.

Per questo, dobbiamo sforzarci di tenere sempre in allenamento un muscolo fondamentale della nostra personalità: l’empatia. Provare a mettersi sempre nei panni degli altri, letteralmente sentire quel che gli altri sentono in una situazione particolarmente difficile, ci fa sentire più vicini soprattutto oggi che, invece, dobbiamo per forza rimanere lontani.

“Empatia non significa entrare a far parte delle circostanza dei protagonisti, ma permettere alle emozioni create dalle circostanze di entrare in contatto con noi”, scrive la giornalista Assunta Corbo nel suo Empatia digitale. Una capacità da allenare anche nella narrazione: “L’obiettivo è cogliere il significato della storia e raccontare i fatti in modo meno impersonale e distaccato restando ancorati all’idea di rispetto dell’essere umano”.

 

#onlife

“Solo chi sa farsi mangrovia può vivere, crescere e prosperare nell’età ibrida. Perché bisognerà stare nelle intersezioni, laddove i fiumi incrociano i mari, in acque dolci e salate insieme, in un habitat di convivenze che sembrano contrapporsi e che invece sono linfa vitale”: la prima stagione de L’Età Ibrida si è chiusa con una lectio di Luciano Floridi, filosofo e professore ordinario all’Università di Oxford.

Nel 2013, fu lui a coniare il termine onlife, questo vocabolo ibrido che racchiude dentro di sé il riconoscimento di un’esistenza nuova, una vita che va al di là della classica dicotomia fisico / digitale. Un po’ come accade alle mangrovie, anche noi esseri umani stiamo vivendo in un habitat di frontiera, dentro una zona di transizione di cui ancora non sappiamo mappare i confini.

 

#Secondo Tempo

“Siamo in un’aula deserta, costretti a proteggerci, ma non abbiamo ragione di sentirci soli”, così il Rettore Franco Anelli ha salutato i primi cent’anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. La cerimonia ibrida a cui hanno assistito tutti gli studenti è una metafora perfetta dei nostri tempi. L’Aula Magna era collegata in remoto con le altre quattro sedi dell’Ateneo, ognuna presidiata da una piccola delegazione di docenti e alunni, in un evento trasmesso in streaming per tutti.

Questa nuova pagina, la Cattolica l’ha chiamata Secondo Tempo, come a dire che cent’anni sono passati ma i più importanti devono ancora arrivare. Anni nei quali l’educazione rivestirà un ruolo sempre più centrale nella vita di tutti, diventando una sorta di anello di congiunzione tra le persone e il progresso della società intera.

 

#open

Quando la pandemia è scoppiata in Italia, Domenico Romano lavorava come Direttore marketing in AW LAB, uno dei principali retailer di abbigliamento sportivo di tutta Europa. Allora non c’erano molte alternative: bisognava fermarsi, bisognava chiudere.

Eppure proprio in quei mesi più bui, quando il pianeta sembrava trincerarsi contro un nemico invisibile, Romano si immagina un mondo del retail nuovo. Finalmente più aperto, in ascolto dei propri clienti, ibrido. È così che è nato il suo libro, Open Retail, un saggio epistolare scritto insieme al libraio Luca Moretti. Tra quelle pagine si ripensa il senso stesso dello stare aperti. Perché open non vuol dire soltanto alzare la serranda, ma soprattutto rimanere attenti ai cambiamenti, lavorare sulle proprie barriere cognitive e non smettere mai di imparare.

 

#ripartenza

L’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo. Ma è anche un “canarino in miniera”, come scrive Luciano Floridi, “quella tendenza che influenzerà altre tendenze”. E se è vero che la pandemia ha accelerato un cambiamento già in atto, è importante analizzare la trasformazione a prescindere dall’emergenza sanitaria, identificandone le radici e i modelli di business che hanno portato alla costruzione di una filiera malata. E ormai insostenibile.

Ne abbiamo parlato con Giuseppe Stigliano, nuovo CEO di Spring Studios, ex CEO di Wunderman Thompson Italy ed Executive Director Europe dell’agenzia AKQA. Nel suo ultimo libro, Onlife fashion: 10 regole per un mondo senza regole, un saggio scritto a sei mani con il guru del marketing Philip Kotler e con Riccardo Pozzoli, Stigliano ripercorre i cambiamenti che hanno investito il mondo della moda negli ultimi anni e che l’hanno spinta a reinventarsi, a definire nuovi linguaggi, a ridare valore all’umanità ridisegnando un’economia intera.

 

#startup

Secondo uno studio di Ipsos sull’impatto economico della pandemia, il digitale è stato un elemento chiave per superare la crisi. Le giovani imprese hanno resistito mettendo in campo una forza nata tra le file degli strumenti digitali. Mentre le aziende tradizionali hanno puntato sulla loro capacità di ascoltare punti di vista diversi, anche all’interno di un business non proprio rivoluzionario.

Per capire come funziona questo nuovo modo di fare mercato abbiamo intervistato Alessia Camera, esperta in growth marketing e autrice di Startup marketing: Strategie di growth hacking per sviluppare il vostro business. Secondo Camera, quello che ci può insegnare una startup è un nuovo modello di business. Un modo di fare mercato fondato non tanto sul prodotto quanto sui bisogni delle persone. In un certo senso le aziende tradizionali fanno il percorso inverso, una volta definito il prodotto cercano il pubblico più adatto a utilizzarlo. Ma  questo processo spesso si porta dietro parecchia inerzia e persino una certa rigidità nel cambiare le cose. Focalizzandosi sul prodotto è molto più difficile innovare, soprattutto quando l’ecosistema attorno a noi si trasforma. In quel caso saremo costretti a rincorrere il cambiamento invece che anticiparlo.

 

#social(i)

Sui social si parla sempre più di vino (solo nell’ultimo anno si è registrato un aumento del 56% di contenuti). E tante aziende si sono digitalizzate, sperando di recuperare un contatto diretto con i propri clienti. L’assenza di una vera e propria strategia di comunicazione, tuttavia, ha reso questi nuovi profili social una sorta di brochure online, la traduzione nel mondo digitale di quel che potrebbe essere la vetrina di un negozio. Ma una piattaforma social è molto di più: è l’inizio di una conversazione, è la curiosità di conoscere l’altro, è la pazienza di capire i propri punti deboli e la forza nel provare a migliorarli.

A raccontarci come il vino ci può aiutare nella nostra comunicazione, Barbara Sgarzi. Giornalista ed esperta di digitale, nel suo libro Social Media Wine: Strategie, strumenti e best practice per comunicare il vino online riesce a unire a filo doppio la comunicazione e l’enogastronomia.

 

#impatto

Impatto è la parola del prossimo incontro: ce ne parlerà Andrea Fagnoni di Ipsos il 15 dicembre, sempre alle 18. Cercheremo di capire come stare sul mercato nei prossimi anni, come riuscire a dominare le nuove tensioni che regolano il nostro mondo. Ipsos, proprio insieme a Iabichino, ha fondato l’Osservatorio Civic Brand, un progetto editoriale che mira a raccontare l’impegno sociale delle aziende in Italia. “Abbiamo bisogno di brand civici”, dice Iabichino. “Brand che stiano sul mercato per occuparsi anche degli altri, un po’ come facevano gli imprenditori un tempo, dentro pratiche che — chissà perché — oggi abbiamo perso di vista”.

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