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L'Età Ibrida

L’Età Ibrida | Ripartenza – intervista a Giuseppe Stigliano

I fili nascosti tra le pieghe del digitale

 La settimana della moda di Milano si fa sempre più ibrida.

Tra gli eventi in programma sono previste 65 sfilate, di cui 42 in presenza e 23 digitali. E poi 108 tra presentazioni ed eventi: 85 in presenza e 23 digitali. In un certo senso è come se il digitale stia cucendo addosso alla realtà analogica nuove dimensioni e possibilità che, fino a pochissimo tempo fa, erano del tutto insperate. I fatturati sono tornati a quelli del 2019, eppure il mondo è cambiato. E non tutto lo dobbiamo alla crisi sanitaria.

Ne abbiamo parlato con Giuseppe Stigliano, nuovo CEO di Spring Studios, ex CEO di Wunderman Thompson Italy ed Executive Director Europe dell’agenzia di comunicazione AKQA. Nel suo ultimo libro, Onlife fashion: 10 regole per un mondo senza regole, un saggio scritto a sei mani con il guru del marketing Philip Kotler e con Riccardo Pozzoli, Stigliano ripercorre i cambiamenti che hanno investito il mondo della moda negli ultimi anni e che l’hanno spinta a reinventarsi, a definire nuovi linguaggi, a ibridarsi con realtà anche molto distanti tra loro.

Luciano Floridi, filosofo e professore ordinario all’Università di Oxford, firma la prefazione del libro indicando la moda come quel settore cardine della nostra industria, un settore che si comporta come una sorta di campanello d’allarme, come un “canarino in miniera”. Analizzarlo non vuol dire soltanto capire un’avanguardia, ma anche – in qualche modo – trovare una via d’uscita da questo mondo in fiamme, perché la moda è “quella tendenza che influenzerà altre tendenze”.

E insomma, proviamo a capire insieme quali sono i fattori che stanno trasformando questa industria a un ritmo sempre più vertiginoso. Stigliano e Kotler li hanno raggruppati in cinque categorie, cinque modi di rileggere il mondo, cinque spunti su cui riflettere.

Accelerazione

E infatti il primo fattore è proprio l’accelerazione.

Nel 1975, il co-fondatore di Intel Corporation Gordon Moore formula quella che diventerà nota come la prima legge di Moore. Una sorta di oracolo dei nostri tempi secondo il quale la complessità di un microcircuito dovrebbe raddoppiare ogni 18 mesi. E in fondo Moore non ci è andato poi così lontano. Ormai la capacità di calcolo di un qualsiasi smartphone è di gran lunga superiore a quella del mitico Apollo Guidance Computer, il calcolatore a bordo dell’Apollo 11 che nel 1969 guidò la compagine americana fin sulla Luna.

Insomma, il futuro non è più quello di una volta.

Anzi, a volte è come se ci sentissimo travolti dal nostro futuro.

E nel mondo della moda? Be’, in questa industria l’accelerazione si è tradotta in una vera e propria esplosione dei mercati, in un eccesso di offerta che ha sbaragliato qualsiasi domanda, in una competizione che si è arrotolata su se stessa fino a polverizzare contenuti, aziende e persino prodotti, che hanno perso la loro centralità, il significato all’interno di un brand, la rilevanza.

E così, l’obsolescenza programmata ha preso i tratti di una sorta di peccato originale, raccontando l’inizio di una storia in cui qualcosa è andato storto, in cui qualcosa ci è sfuggito di mano.

 

Ibridazione

Siamo nell’era delle mangrovie.

La scorsa edizione de L’Età Ibrida l’abbiamo chiusa proprio così: tra i rami di queste piante, sulle coste tropicali, in un ecosistema ibrido, in una zona di transizione all’incrocio tra l’acqua dolce e l’acqua salata. Ce lo spiegava sempre Luciano Floridi: anche la nostra vita sta mettendo radici in un habitat nuovo, in un luogo ancora da esplorare e di cui non conosciamo affatto i confini: il mondo digitale. Persino il mercato sta ridisegnando le mappe su cui navigare attorno a questo nuovo tipo di esperienza, alle contaminazioni che ne stanno nascendo, alle sue mutazioni.

Non è più possibile ragionare soltanto in termini di mondo analogico o di mondo digitale, perché questi due ecosistemi si compenetrano. E le azioni nell’al-di-qua si specchiano in uno spazio sempre più ingombrante dell’al-di-là.

 

Disintermediazione

Quando Tim Berners-Lee pubblica il primo sito internet della storia il suo sogno era quello di creare, nel mondo digitale, una realtà ispirata a un libro ben preciso: l’Enquire Within upon Everything.

Si trattava di un’enciclopedia universale che i genitori di Berners-Lee avevano nella loro casa appena fuori Londra. Un volume aggiornato in continuazione dove trovare informazioni di ogni tipo. Dalle regole del galateo alle ricette della nonna, dai consigli su come far sparire una macchia ai modi più sicuri per investire i propri risparmi.

Insomma, esattamente quel che oggi è il web.

Ormai ci sembra qualcosa di scontato, eppure la rete è riuscita a realizzare un sogno che neppure le più grandi civiltà del passato avrebbero osato immaginare.

Un accesso al sapere gratuito e diffuso, ma soprattutto un’architettura del sapere non più lineare, ma transdisciplinare, che si muove “tra le intersezioni delle discipline” come scrive Frans Johansson nel suo Effetto Medici.

La disintermediazione che ne è nata ha messo in crisi le élite novecentesche, ma di fatto ne ha create di nuove.  Per esempio ormai da molti anni Google è il sito più visitato al mondo perché tutti lo usiamo come motore di ricerca, ovvero come quella mappa indispensabile per navigare il web. Ma ancora. Grazie al web non siamo più soltanto ascoltatori, ma piuttosto nodi attivi di una rete globale, e in quanto tali produciamo contenuti che saranno letti da altri nodi. Contenuti che, però, nessuno filtra, nessuno corregge, nessuno ha tempo di verificare. Per questo siamo finiti nell’era della post-verità?

Nella moda, questo si è tradotto con una rivoluzione copernicana nel campo della progettazione e del design.

Un tempo le marche che facevano grandi prodotti riuscivano ad attrarre sempre più clienti, mentre ora è possibile sviluppare i propri prodotti soltanto se tante persone seguono il nostro brand.

Sostenibilità

La moda è tra le industrie più inquinanti al mondo.

E non è soltanto una questione dei mezzi di produzione, ma piuttosto una condizione ontologica. Per definizione la moda è ciclica, cresce quando produce eccessi, “consiste nell’imitare ciò che, in un primo momento, si presenta come inimitabile”, come scrive Roland Barthes. Per questo si sviluppa soltanto con le società tecnologiche e industriali, perché è strettamente legata ai mezzi di produzione capitalistici. E così, per molti anni, l’industria della moda ha vissuto di compensazione rispetto all’impatto che aveva sull’ambiente: provando a mettere una pezza dopo il buco.

Oggi però questo modello non funziona più. E’ necessario ripensare al valore di un brand oltre il suo fatturato, recuperando un’economia circolare, senza sprechi, in cui ogni sforzo viene rimesso in circolo.

Il punto non è soltanto come essere sostenibili, ma come rimanere competitivi essendo sostenibili.

 

Democratizzazione

L’enciclopedia globale di Tim Berners-Lee ha messo a dura prova le élite, è vero, ma ha anche reso il sapere alla portata di tutti, ha semplificato i contenuti, ha aperto le porte alla condivisione. Nell’industria della moda questo ha portato a un’apertura dei mercati, a marchi sempre più accessibili, a un appiattimento del gusto.

Una rivoluzione rispetto all’haute couture che ha caratterizzato la prima metà del novecento, un’industria radicata in un mondo ancora appannaggio di pochissimi.

In qualche modo è come se internet stia intessendo una trama nascosta tra le pieghe della nostra vita analogica. La traccia che lascerà il mondo della moda nei prossimi anni definirà il modello anche per tutte le altre industrie. Non sappiamo ancora cosa succederà, per adesso siamo ancora impegnati a cucire.

Per recuperare l’intervento completo di Giulio Stigliano

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