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Ripartenza | Lavorare alla grande in un mondo sempre più piccolo

In un futuro non troppo lontano, tra le aule di un istituto di ricerca norvegese, il dottor Asbjørnsen è alle prese con un esperimento straordinario. Non sembra aver bisogno di molto: una puntura con un liquido azzurrino, una macchina dal sapore vintage con una grande leva e parecchi bottoni, un timer da forno. Tanto basta per hackerare due delle leggi fisiche più complesse di sempre, la legge di Lavoisier e il principio di conservazione dell’energia.

Cinque anni dopo, un auditorium pieno di scienziati assiste incredulo alla presentazione che il dottor Asbjørnsen fa delle sue ricerche, mostrando “l’unico rimedio umano, globale e pratico al più grave problema dell’umanità”, quello della sovrappopolazione mondiale: la miniaturizzazione di tutte le persone del pianeta. È questa la premessa di Downsizing, il film più catastrofista di Alexander Payne che nel 2017 ci ha fatto sorridere con il suo caratteristico black humor, immaginando un mondo sconvolto dal cambiamento climatico.

Oggi invece. Be’, oggi è rimasto ben poco da immaginare.

Ormai quel futuro non troppo lontano sembra già qui, anzi sembra essere arrivato già da un bel pezzo. Tanto che una delle industrie più inquinanti al mondo, quella della moda, sta finalmente prendendo posizione. Letteralmente sta cercando di riposizionarsi su nuove coordinate, provando a stabilire un altro modo di lavorare. Più empatico verso i propri lavoratori, più sostenibile, più informato.
In un certo senso si sta facendo sempre più piccola, sta cercando di ridimensionarsi, di diminuire l’impatto che ha sul mondo.

O almeno ci sta provando. Perché il corpo che negli ultimi cinquant’anni è diventato un mito fondativo della nostra società deve essere ripensato, alla luce di tutti quei corpi che invece ignoriamo. Quelli che stanno pagando il prezzo ambientale, quelli che non rientrano nei canoni, quelli che fanno parte di una filiera malata e ormai insostenibile.

Sono quei corpi che dovrebbero guidare questo cambiamento necessario. Sono quelle le vite che dovremmo studiare per capire da che parte stiamo andando. L’avvento del digitale, la globalizzazione, la pandemia sono soltanto fattori di accelerazione di un cambiamento che è già in atto. E che ha radici molto più profonde, dentro modelli di business che non contemplano più l’essere umano come soggetto ma soltanto come strumento.

E così proprio quell’industria che fa del corpo un significante, per dirla alla Hegel, che mette in causa una certa significazione del corpo, e quindi anche della persona, sta facendo uno sforzo per ridisegnarsi, per ridare valore all’umanità e al suo rapporto con la sua immagine, per ristabilire un legame tra il corpo e la società. Perché se il vestito permette all’uomo di “assumere la sua libertà”, di costruirsi come ciò che ha scelto di essere, come scrive Sartre difendendo il Santo Genet, allora la moda non è altro che un linguaggio, con il quale ogni marca racconta una storia. La sua storia.

Lunedì 20 settembre alle 18 torniamo tra le pagine de L’Età Ibrida per raccontarla, questa storia. Per capire quali fattori hanno sconvolto l’industria della moda e in che modo il settore manifatturiero si sta rivoluzionando.

Insieme a noi Giuseppe Stigliano, esperto di marketing e di trasformazione digitale, co-autore di Onlife Fashion: 10 regole per un mondo senza regole, un saggio scritto a sei mani con Philip Kotler, guru del marketing secondo il Financial Times, e Riccardo Pozzoli, manager specialista del mondo delle start up digitali e dei social media.

Se volete seguire l’evento insieme a noi, potete registrarvi gratuitamente a questo link e farci compagnia da remoto, altrimenti potete venire a trovarci nella nostra casa fisica, Palazzo Giureconsulti di Milano. I posti sono limitati, ma se ci facciamo piccoli piccoli ci stiamo tutti.

Il controcanto

Gli eccessi narrativi della pubblicità
E vissero tutti felici e contenti?

 

L’aria è gialla e umida.

C’è una nebbia leggera che circonda tutte le cose, che rende i confini meno netti, meno reali. Le persone sono ammucchiate un po’ ovunque. Qualcuno sta in piedi, qualcun altro è sdraiato per terra e sembra impegnato in una specie di coreografia con se stesso. I bambini sono i più eccitati. Corrono e ballano mentre si guardano allo specchio che percorre tutto il soffitto.

Di fronte a loro, soltanto un sole, un sole enorme.

L’installazione che Ólafur Elíasson ha realizzato per il Tate di Londra nel 2003 è riuscita a creare una delle esperienze collettive più importanti di tutta l’arte contemporanea.

The Weather Project nasce da una riflessione sul cambiamento climatico (tanto che in molti ci hanno visto l’apocalisse dentro quel sole giallo) eppure riesce anche a modellare uno spazio per una conversazione più intima, contemplativa, che la maggior parte dei suoi spettatori sembra apprezzare fin nel profondo.

Quella luce gialla ha attraversato anche la vita di Elíasson per molti anni.

Uno dei suoi primi lavori, Room for one colour, era uno spazio enorme e vuoto riempito soltanto di luce monocromatica, gialla ovviamente. Era come se tutto fosse inghiottito dentro quella luce. Qualsiasi altro colore spariva in una serie di sfumature monocorde che lasciavano posto a un’attenzione diversa, a un nuovo modo di percepire il mondo. Nel documentario Abstract di Scott Dadich l’artista spiega il fenomeno fisico dietro la sua opera. In una stanza vuota illuminata da una luce gialla vediamo una serie di quadri appesi alla parete. Sembra una serie pantone in cui si distinguono soltanto grigi di diverse intensità, marroncini forse. Il mondo sembra piatto, uniforme. Questo perché, in effetti, è la luce bianca a farci percepire i colori: i coni delle nostre retine rispondono alle lunghezze d’onda diverse della luce visibile decodificando i colori, che non sono nient’altro se non il riflesso di quella luce.

“Guardate cosa succede adesso”, dice Elíasson nel documentario mentre accende una lampadina in mezzo alla stanza. I quadri dietro di lui si colorano e noi ci rendiamo conto che, in realtà, non si trattava di una serie di gialli, ma di un fitto ventaglio di colori prismatici, sì insomma di tutti i colori dell’arcobaleno. “È un miracolo”, commenta l’artista. Il colore è sempre stato lì sotto. Anzi, è sempre stato davanti ai nostri occhi, per tutto quel tempo, soltanto che noi non riuscivamo a vederlo.

In un certo senso è successo una cosa simile anche durante la pandemia.

La crisi sanitaria che ha investito tutto il mondo ha creato un’unica conversazione pubblica, un’unica luce, che ha invaso tutte le nostre vite. Ormai leggiamo la realtà filtrata dai dati dei contagi e dei ricoveri, dai giorni che ci restano in lockdown e da quelli senza coprifuoco. Certamente, è un’attenzione necessaria, per noi stessi ma anche per tutta la nostra società, eppure a livello comunicativo ha avuto come risultato quello di appiattire il punto di vista su un unico tema, di ridurre il mondo a un’unica lettura possibile.

Ormai ci siamo quasi dimenticati che, poco prima dello scoppio della pandemia in tantissimi paesi, milioni di persone si stavano ritrovando a protestare contro regimi di oppressione, disuguaglianze, crisi economiche e carovita. Soltanto nell’ultimo trimestre del 2019 le proteste hanno interessato 37 paesi diversi, 114 in tutto l’anno. In un solo giorno quattro milioni di giovani si sono ritrovati in piazza per scioperare contro il cambiamento climatico. Non era mai successo nella storia del mondo, neppure durante le guerre, neanche nel 1968.

Certo, non si possono paragonare le cause, eppure un elemento in comune c’è. Dai gilet gialli al movimento #metoo, dalle proteste anti-regime in Egitto agli attivisti del Black Lives Matter: tutti si sono serviti di un certo tipo di comunicazione, di un nuovo modo di stare al mondo. Non si può ignorare che gli utenti di internet negli ultimi vent’anni siano passati da 800 mila a quasi 4 miliardi. Una crescita così repentina che ha trasformato anche il nostro modo di protestare. Quelle che in altre epoche sarebbero state manifestazioni locali o al più nazionali, oggi si alimentano a scala globale diventando un unico grande fenomeno.

Quelle proteste, quel malcontento, oggi non può più essere ignorato, perché la pandemia non ha fatto che rendere ancora più urgenti certe tematiche.

In questi due anni ci siamo resi conto che nel mondo di prima non c’era niente di normale, che se non riusciremo a trovare altre ragioni alla nostra società che vadano oltre il solo profitto economico non avremo scampo. Che se alle nobili intenzioni non seguono anche nobili azioni, le nostre imprese resteranno vuote, ma vuote davvero.

Dentro una luce gialla che ci avvolge.

Una luce e niente più.

 

Uno spettro si aggira per il mondo: l’ipernarrazione

La luce monocromatica della pandemia ha investito anche il campo della pubblicità. Durante il primo lockdown abbiamo assistito a uno slittamento del linguaggio, pervaso di abbracci, ringraziamenti e mascherine. Anzi, in un certo senso sembrava quasi di assistere sempre alla stessa pubblicità, perché in fondo tutte cercavano di rispondere a quell’unica conversazione che stava prendendo sempre più spazio all’interno delle nostre vite.

In questo processo tante parole hanno cambiato significato, mentre altre hanno rivendicato un’esistenza tutta nuova. Pensate a eroe/eroina, lemmi che ormai non ci riportano più dentro una retorica da film della Marvel. Oppure riflettete su che cosa sia diventata la normalità, questa parola che ormai faticosamente cerca di ritrovare una dimensione tutta sua all’interno del linguaggio quotidiano. Ma non solo. Perché le pubblicità sono cambiate anche esteticamente. Le persone di quasi tutti gli spot ormai se ne stanno sempre da sole o al massimo con qualche membro della propria famiglia, le feste sono scomparse insieme agli spazi aperti, alle file in cassa ai supermercati e agli sconosciuti.

Ci mancano parecchio gli sconosciuti.

Insomma, in qualche modo non riusciamo più a vedere tutte le sfumature del mondo e in questo processo stiamo perdendo pezzi di senso e di significato. L’abbiamo già visto in altri momenti storici: quando affidiamo le grandi tematiche sociali al linguaggio pubblicitario il rischio è quello di perdere rilevanza e con essa anche una certa dose di credibilità.

Se mandiamo la fiducia in pasto alle banche e l’amicizia ai social media, il risultato è un depotenziamento di questi concetti e una certa logica di sospetto che si insinua tra le conversazioni dei consumatori.

Perché se è vero che la retorica fa parte del linguaggio pubblicitario, è anche vero che un eccesso di retorica porta alla costruzione di narrazioni poco credibili, stucchevoli e inaffidabili. Mi verrebbe da chiamarle ipernarrazioni, queste storie iperboliche e saturate che nascono quando un buon contenuto si traduce in una lingua incantevole, in una forma davvero sublime, che però finisce per distogliere l’attenzione dal messaggio, catalizzando in maniera tossica un certo tipo di ascolto, una cura altrimenti difficile da reclamare. Quasi sempre queste narrazioni si ammantano di simboli e attecchiscono meglio quando il contesto è più permeabile alle lacrime, perché la sofferenza che le pervade crea una tensione impossibile da scuotersi di dosso.

In qualche modo è come se l’empatia diventasse l’obiettivo della storia. Ma un’empatia fine a se stessa, che si parla addosso e che rincorre l’emozione a discapito di un impegno serio e sincero da parte dell’azienda che dovrebbe rappresentare. La narrazione diventa iper quando è priva di contenuti. Quando racconta bene, ma non comunica. Quando si svuota del significato per abbracciare soltanto una futile apparenza.

Insomma, quando non è autentica.

Perché essere autentici significa raccontarsi per quel che si è, senza eccessi. Sposare una causa per cambiare il proprio modello di business e non soltanto per costruire l’ennesima campagna pubblicitaria. Smettere di vedere i propri clienti soltanto come consumatori, ma riconoscerli come cittadini, interlocutori preziosi all’interno di un processo dialettico di scambio per la definizione della propria identità.

L’esperienza d’acquisto sta cambiando, le nuove generazioni non sono più disposte a scendere a patti con un certo tipo di impresa. E l’esordio in borsa di Deliveroo ne è l’esempio più lampante. Un esordio che sarà ricordato come uno dei peggiori della storia. Non è più possibile premiare la voracità tossica del profitto a tutti i costi, le dinamiche corrotte dell’iperconsumo non possono più essere ignorate. Sono gli stessi consumatori a chiedercelo. La generazione Z fa di ogni acquisto una scelta civica. Entra nei camerini come fossero cabine elettorali e premia le aziende con una sorta di voto, il loro scontrino.

La comunicazione è soltanto l’ultimo anello della catena di responsabilità che le aziende hanno nei confronti dei loro clienti. Uno sforzo creativo per spiegare i valori che stanno dietro un business e non soltanto le caratteristiche di un certo prodotto o di un servizio. E per essere credibili le imprese devono essere coerenti, solo in questo modo potranno rafforzare la reputazione e il rapporto con i propri stakeholder. Per contribuire alla creazione di nuovi scenari, per cambiare il mondo un prodotto alla volta.

Venderemo meno?

Sì, probabilmente venderemo meno.

Ma la cosa più importante è che venderemo meglio.

 

Novant’anni di Babbo Natale

Era il 1931 e a New York si completava in tempo record la costruzione dell’Empire State Building, l’edificio che per oltre quarant’anni sarebbe stato il più alto del mondo, un vero e proprio simbolo della città, della nazione, della fede incrollabile che il nuovo mondo aveva in un futuro migliore. Pochi giorni dopo la sua inaugurazione Arturo Toscanini venne aggredito da un gruppo di fascisti fuori dal Teatro Comunale di Bologna perché si era rifiutato di iniziare un suo concerto con i due inni Giovinezza e Marcia reale. Sarà la sua ultima esibizione in Italia fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. A Natale dello stesso anno, in uno studio di Atlanta, l’illustratore di origini scandinave Haddon Sundblom dipinse uno dei lavori più famosi di tutta l’arte moderna: il Babbo Natale della Coca-Cola.

Sguardo pulito, guance infiammate di rosso e un sorriso nascosto dalla folta barba bianca. E’ impossibile non riconoscere in quell’immagine un fossile fondamentale della società contemporanea. Una sorta di Stele di Rosetta dei nostri giorni in cui si incrociano epoche e culture diverse, radici cristiane e utopie capitalistiche, un linguaggio ancora da studiare, anzi diversi linguaggi e certamente un modo tutto nuovo di vedere il mondo.

E se la Grande Depressione stava mettendo i suoi artigli sempre più profondi all’interno della carne viva della società americana, portandosi via 14 milioni di posti di lavoro in una manciata di anni, proprio questa campagna pubblicitaria, quella di Sundblom, garantì alla Coca-Cola un successo planetario. Un impatto enorme non soltanto sugli amanti della bibita ma sul mondo intero grazie alla creazione di un orizzonte collettivo dentro il quale ancora oggi noi tutti ci muoviamo.

Quel Babbo Natale iperrealista è diventato un simbolo molto più forte di una miscela di acqua e zucchero. E’ l’incarnazione di una certa cultura di massa, del sistema consumistico intero, di una versione non ancora tramontata del tanto agognato sogno americano.

Perché quei pochi tratti impressionisti sono riusciti a dipingere un’idea di mondo che andava ben al di là di un semplice cartellone pubblicitario. Hanno ridisegnato le economie mondiali, imponendo un modello di business mai esistito prima sulla faccia della Terra.

E se non è vero che le fattezze se le sia inventate Sundblom (versioni molto simili al suo Babbo Natale erano apparse già a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo), è innegabile che quella sua aria amichevole, bonacciona quasi, rassicurante, hanno reso Babbo Natale una delle figure più amate dei nostri tempi, straordinariamente comune nonostante il fosco alone ultraterreno che lo circonda. Un sogno dentro il quale dimenticare uno dei periodi più drammatici di tutti i tempi, la creazione di un mito, una colonizzazione culturale senza precedenti, il testimonial più redditizio del mondo capitalista.

Anche se chiamarlo testimonial potrebbe essere un po’ fuorviante.

Perché in effetti non è vero che la sua immagine sia stata sfruttata dalla Coca-Cola. Ma piuttosto è stato Babbo Natale stesso, per come l’hanno confezionato alla Coca-Cola, a rafforzare l’ideologia della società dei consumi ammantandola di altruismo e buoni sentimenti, rovesciando il senso del dono nell’importanza dell’acquisto, calando dal camino non soltanto un prodotto ma anche un sistema di proporzioni globali che ogni Natale si rinnova e riacquista tutta la sua forza: il consumo.

Nel frattempo i manifesti pubblicitari si sono svuotati delle bellezze raffinate e degli orizzonti esotici per dare spazio a fantasie molto più quotidiane, ragazze acqua e sapone, scene quasi bucoliche. La Coca-Cola vende una giornata qualunque, o almeno l’idea di quella giornata. Una giornata finalmente libera dalle preoccupazioni della crisi e dallo stress, infagottata dentro un ottimismo incrollabile, eterna nella sua promessa di felicità. La stessa felicità che spariva dai testi. Dalle verbose descrizioni di inizio Novecento si passò a formulazioni sempre più nette, semplici. Dal longevo “Deliziosa e rinfrescante” alla “Coca-Cola ti ridà slancio e ti sostiene”, da “La pausa che rinfresca” al classico “Dissetati davvero”, per arrivare fino al minimalismo più estremo, un vero e proprio manifesto della grandezza dell’azienda statunitense: “Coke is it!”, la Coca-Cola semplicemente è.

E in fondo a che serve aggiungere altro?

 

Le note necessarie

Si chiama saturazione semantica ed è un fenomeno che affligge tanti grandi temi della società contemporanea. La prima volta che se n’è parlato era il 1907 tra le righe di un articolo dell’American Journal of Psychology che recitava così:

“Se si osserva abbastanza a lungo una parola scritta, finirà per apparire stranamente curiosa, magari addirittura estranea al nostro linguaggio. Questa improvvisa perdita di familiarità potrà rendere quella parola incomprensibile, come se si trattasse di una lingua straniera, o magari soltanto di una sequenza ordinata di lettere, o ancora addirittura di un’accozzaglia di simboli sulla carta senza significato né spessore”.

Si tratta di un cortocircuito cognitivo legato al funzionamento delle nostre cellule cerebrali: ogni volta che richiamiamo alla mente un concetto, una cellula si attiva. Ma sarà necessaria dell’energia maggiore per richiamare alla mente lo stesso concetto una seconda volta, e un livello ancora più alto per la terza. Così alla quarta volta la cellula smette di rispondere, a meno che non si aspetti qualche minuto. In un certo senso, diventiamo sazi di quella parola che in questo processo perde del tutto la sua funzione semantica, cessa di avere un qualsiasi significato per noi.

Non funziona soltanto con le parole. Uno studio dell’Università delle Hawaii ha dimostrato che esiste una saturazione semantica anche nelle classifiche di musica pop. Le canzoni che scalano le vette molto velocemente saranno anche quelle dimenticate con estrema facilità, mentre quelle che entrano nel circuito musicale nel giro di mesi ci impiegheranno molto più tempo a sparire.

E poi lo stesso concetto funziona anche nell’arte, nella tecnologia e persino nel marketing. Un esempio è il “Black Friday Malady”. Bombardati tutti gli anni dalle stesse promozioni sensazionalistiche del venerdì nero prenatalizio, i consumatori hanno finito per sentirsi sempre meno coinvolti, come se si fossero stancati di quel tipo di offerta, magari della sua stessa formulazione, come se fosse venuta meno l’attenzione necessaria e la volontà di ascoltare tutte quelle aziende.

Nella conversazione unica della pandemia le cose sono peggiorate.

Alcune parole risuonavano all’interno delle pubblicità come un mantra e alla fine hanno perso un po’ della loro potenza, della loro forza narrativa. Gli abbracci, la famiglia, l’umanità sono diventati concetti abusati, che oggi non ci dicono più niente.

Forse l’apice di questa iper-retorica l’abbiamo vista proprio nello spot di Natale della Coca-Cola. Ancora una volta il protagonista è Santa Claus, che torna sotto le sembianze di una letterina, il desiderio più grande di una bambina che viaggia letteralmente per mari e per monti pur di arrivare a destinazione, al Polo Nord. Un viaggio dell’eroe talmente esagerato e ridondante da falsificare anche le intenzioni più sincere.

Perché ci deve essere una certa dose di responsabilità anche nello scrivere pubblicitario che ha bisogno di rimanere sempre in ascolto degli umori della gente per essere davvero efficace. Bisogna fare i conti con le migliaia di morti e la crisi che si affaccia in tutto il mondo prima di arrendersi compiaciuti davanti al proprio scrivere. Un po’ come se dovessimo maneggiare una specie di diapason, solo che gli strumenti sono le decine di migliaia di persone che ascolteranno le nostre pubblicità.

Non è facile capire quando fermarsi.

Il rischio è dire “poco con molto”, come direbbe Cortázar, di brutalizzare le emozioni con iperboli narrative da quattro soldi. Succede lo stesso anche nella musica. Negli anni settanta, un giovanissimo Enrico Rava se ne andava per le vie di New York per raggiungere la casa di Joao Gilberto, che a quel tempo si era già inventato un genere musicale tutto suo, un incrocio fertile e misterioso tra la samba e il jazz, la bossa nova. E insomma quando Rava andava a casa sua si mettevano a provare un po’ di canzoni e un giorno Gilberto smise all’improvviso di suonare e gli disse: “Voi jazzisti vi inventate sempre tante di quelle note. Suona solo quelle necessarie. Le altre cerca di non suonarle”.

Ecco è un po’ così anche nella scrittura, nella pubblicità.

Bisognerebbe suonare soltanto le note necessarie.

Soltanto quelle che ci servono davvero.

 

Just Do It

Bisogna capire da che parte stare.

Il marketing non può più servire soltanto a vendere un prodotto. Ma ormai è anche un modo per veicolare i valori dell’azienda che rappresenta. Per restituire un senso al fare mercato che non sia soltanto consumare ma piuttosto creare una realtà che possa davvero migliorare la vita della gente.

“Le aziende oggi hanno anche una responsabilità sociale. I clienti vogliono sapere quale sia lo scopo della loro attività”, queste le parole di uno dei padri del marketing contemporaneo, Philip Kotler. Nel suo Brand Activism riscrive ancora una volta la famosa teoria delle quattro P formulata nel 1960 da E. Jerome McCarthy.

A product, price, placement e promotion si aggiunge una P importantissima: quella di people. Costruire il proprio business attorno alle persone, attorno ai bisogni reali della gente, deve essere l’obiettivo di qualsiasi azienda. Guai a fare il contrario, guai ad adattare la vita alle leggi del marketing.

E poi ancora manca la P di planet, perché una realtà produttiva deve essere sostenibile. Non soltanto in termini ambientali, ma anche in termini economici, di lungo periodo, in una revisione totale anche della sostenibilità del sistema capitalistico. Ma soprattutto nel brand activism si introduce la P di purpose, del senso stesso del fare mercato, una P che mette in discussione le geometrie e gli orizzonti anche del mio mestiere.

Fare mercato oggi non può più dividersi tra fare profitto e prendersi cura del mondo. Queste due istanze devono fondersi all’interno di una visione molto più ampia e articolata della realtà, in modo da affrontare con serietà e dedizione le tematiche più urgenti dei nostri tempi.

Se lo storytelling inquina le ideologie, allora non è un buon storytelling. E dovrà essere ricostruito. Magari sarà necessario ridefinire persino il linguaggio. E poi creare nuove storie in cui riconoscersi, nuovi miti.

Un mondo sempre più allargato, sempre più globalizzato, equivale anche a responsabilità maggiori, per tutti. Sono le persone a chiedercelo.

Secondo i dati Ipsos il 65% dei consumatori pensa che sia giusto che le aziende si espongano in prima persona rispetto a tematiche sociali rilevanti, contro il 46% di un paio di anni fa. E poi la stragrande maggioranza pensa che il compito di un’impresa sia proprio quello di occuparsi della qualità della vita dei propri dipendenti. E anche di quella della comunità all’interno della quale si inserisce.

Insomma, è arrivato il momento di prendersi le proprie responsabilità, di riscrivere il nostro tempo.

Le sensibilità sono cambiate e con loro anche le esperienze di consumo.

Ma non è tutta colpa della pandemia.

L’inizio del brand activism possiamo farlo risalire al 2018 quando la Nike sceglie Colin Kaepernick come suo testimonial per lo spot in onore dei trent’anni dalla creazione dello storico slogan Just Do It. Believe in something, even if it means sacrificing everything dice Kaepernick in quello spot, una frase che soltanto nella sua bocca non ha un sapore ipocrita. Un paio di anni prima, infatti, quando ancora giocava nel San Francisco, Kaepernick si inginocchiò durante l’inno nazionale per protesta contro la brutalità della polizia e contro le disuguaglianze che colpiscono gli afroamericani in tanti campi della società civile. Quel gesto fu criticato soprattutto da Trump e dai suoi sostenitori. Tanto che l’anno dopo, quando il suo contratto terminò, Kaepernick non riuscì a trovare un’altra squadra in cui giocare, nonostante la sua fortunata carriera e il suo talento.

Lo spot ha suscitato tantissime polemiche, eppure è riuscito a vincere un Emmy, ha guidato una campagna fortunatissima e ormai qualsiasi prodotto Nike pubblicizzato da Kaepernick finisce sold out in una manciata di minuti. Niente paura, potete ancora fare i soldi purché non sia l’unica cosa che avete in mente: recita l’ottantesima tesi del Cluetrain Manifesto.

Perché funzioni, però, occorre ripensare al capitalismo in un’ottica sociale, un sistema economico che non guardi soltanto al profitto.

La pandemia ha rimesso in agenda temi che erano urgenti già da parecchi anni, ma che oggi proprio non si possono più ignorare. Le differenze di genere, il razzismo, il cambiamento climatico: sono tutti temi da affrontare anche nell’imprenditorialità, e bisogna farlo con coraggio.

Perché chi non prende posizione ormai deve essere disposto a pagarne le conseguenze, a pagare il prezzo del proprio silenzio.

 

La luce gialla, la luce bianca

E così la luce gialla sembra quasi diradarsi.

Per tanto tempo abbiamo visto un mondo monocolore, una percezione del tutto alterata della realtà e della società intera. Forse la pandemia ci ha dato il tempo di riflettere su parecchie questioni, di mettere a fuoco un certo tipo di comunicazione che non funziona più. Nel film vincitore della Palma d’Oro a Cannes The Square si racconta proprio di questo, della campagna pubblicitaria di un’installazione semplice ma al contempo molto controversa. “Il quadrato è un santuario di fiducia e amore, entro i cui confini tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri”: si legge all’interno dell’opera. Verrebbe da dire che qualsiasi società dovrebbe rispondere a questa definizione, eppure lo sappiamo bene: così non è.

E infatti nel film ci accorgiamo pian piano che gli sforzi del direttore del museo per promuovere il messaggio di uguaglianza di quella installazione nascondono una buona dose di ipocrisia e ambiguità, soprattutto quando quegli stessi principi dovrebbero essere applicati alla sua vita di tutti i giorni.

Perché se il purpose è fondamentale, se il senso è ciò che dovrebbe guidare le nostre aziende, le narrative si svuotano quando non sono seguite da un impegno concreto, da una sincera call to action, come direbbe Kotler.

Questo Natale sarà il novantesimo per il Santa Claus della Coca-Cola e quasi spero che sia arrivato il momento di mandarlo in pensione.

Facciamo che quest’anno cerchiamo di raccontarlo in maniera un po’ più autentica, essenziale anche, magari ricostruendo insieme il valore del dono. Una sorta di Natale calmierato dal punto di vista narrativo, uno Slow Christmas.

Pensate che si possa fare?

Un Natale che non si esaurisca nelle strisciate delle carte di credito, che non venga raccontato dalle storture dell’ipernarrazione pubblicitaria. Un momento in cui si possa ricostruire il valore dello stare insieme e quello di una certa idea di mondo. Liberi dall’ansia del purpose, dal ricatto emotivo dell’apparire, e finalmente autentici.

Ecco mi auguro questo.

Di riuscire ad accendere quella lampadina, quella di luce bianca, dentro cui finalmente vedere tutti i colori del mondo.

Un arcobaleno.

Paolo Iabichino

L’Età Ibrida | Open – Una chiacchierata con le imprese per capire come rimanere aperti davvero

Il secondo appuntamento dell’Età Ibrida l’abbiamo chiamato Open, che più che un titolo sembra un augurio per tutte quelle aziende che in questi mesi stanno ripartendo, per quelle che non si sono mai fermate o per tutte le imprese che si sono aperte ai cambiamenti pur di non arrendersi.

In questo appuntamento, poi, ci siamo aperti anche noi. Finalmente siamo tornati in presenza, ritrovandoci nella Sala delle Colonne di Palazzo Giureconsulti, la nostra casa fisica, insieme ai nostri ospiti. Questo non vuol dire che abbiamo abbandonato gli strumenti digitali. Centinaia di persone si sono connesse alla nostra piattaforma, ascoltando ospiti in remoto o da Milano. Insomma, un format che restituisce in qualche modo una misura del tempo che stiamo vivendo.

Il punto è cercare di rimanere aperti, il più aperti possibile.

Restare in ascolto dei bisogni dei propri clienti e non smettere mai di imparare. Perché gli strumenti cambieranno sempre (quelli digitali cambiano a una velocità mai sperimentata prima), ma i bisogni restano, e sono quelli che dobbiamo intercettare.

Open è il modo migliore per guardare al mercato nei prossimi tempi, cercando di abbassare al minimo le nostre barriere cognitive e intercettando le nuove esperienze di consumo, ibridando i modelli d’impresa di atomi con quelli fatti soltanto di bit. Come? L’abbiamo chiesto a due aziende che in questi mesi sono riuscite a incarnare davvero lo spirito dell’Età Ibrida.

 

Imparare dal digitale

Ormai è chiaro: le nuove generazioni non comprano più come un tempo, ma piuttosto decidono con i loro scontrini quali marche portare all’interno delle proprie vite. E lo fanno a prescindere dagli spazi e dagli strumenti da usare: che siano fisici, classici, o digitali ormai poco importa.

Ne abbiamo parlato con Domenico Romano, CEO di Fandango Club Creators, che ha speso tutta la sua vita nel mondo del retail: è necessario un cambio di passo per superare la crisi in cui sono finiti centinaia di negozi al dettaglio nel nostro Paese. E non possiamo dare tutta la colpa al Covid: questa crisi ha radici ben più profonde, che risalgono almeno al 2015. Romano ci ha proposto un suo modello per ripartire, il modello barbiere. Assomiglia quasi a quello dei negozietti di una volta, ma con una consapevolezza tutta nuova degli strumenti digitali: per esempio quelli di acquisizione del dato, della gestione di magazzini esterni o dell’offerta di servizi e prodotti personalizzati. Un modello che si accompagna a un processo di ottimizzazione di tutte le risorse dell’azienda.

E le due startup che ci hanno accompagnato in questo appuntamento sembrano incarnare perfettamente questo spirito. Entrambe fanno parte della community Tavolo Giovani, iniziativa tramite cui la Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi dal 2016 mette a disposizione delle startup una vetrina digitale e numerose occasioni di networking con imprese consolidate, investitori ed ecosistema startup del territorio, che partecipano agli incontri di Tavolo giovani, per conoscere ed entrare in contatto con le giovani imprese innovative ed esplorare la possibilità di creare sinergie e collaborazioni.

Così abbiamo conosciuto Cristiano Di Battista, fondatore di Happy Lab, che durante i mesi di lockdown ha sviluppato l’applicazione Take It Home e che la Camera di commercio ha sostenuto nell’ambito della “Call for solutions: innovazioni per l’economia di prossimità”.

Cristiano Di Battista, fondatore di Happy LabL’idea è molto semplice, anche se è riuscita a intercettare il bisogno forte, fortissimo, di tutti i negozietti di quartiere che volevano continuare a lavorare anche con le serrande chiuse. Di fatto, si tratta di una mappa interattiva in cui sono segnalati gli esercenti che aderiscono al programma, divisi per categoria e corredati da informazioni di ogni tipo. Dal menù proposto alla possibilità di riservare un tavolo, dalla consegna a domicilio al servizio take away.

Happy Lab non è nuova a sperimentazioni digitali. Questa startup innovativa nasce con l’obiettivo di diffondere l’innovazione all’interno delle piccole e medie imprese, realizzando progetti digitali che sperimentano, testano e validano direttamente sul mercato. Un team di 22 persone distribuito su tutto il territorio nazionale che ha iniziato a lavorare in smart working ben prima dell’inizio della pandemia.

Ma con noi abbiamo avuto anche Marco Mutto, co-fondatore di Viamadeinitaly, una startup che ho avuto l’onore di seguire fin dalla sua nascita all’interno del progetto Bocconi for Innovation e che ha partecipato al Tavolo Giovani #Digital, uno spazio della Camera di commercio Milano Monza Brianza Lodi per lo studio di “Innovazione e digitalizzazione per il rilancio del sistema economico”.

Matteo Mutto, co-fondatore di ViamadeinitalyAnche qui il concetto di open ci sta a pennello. Viamadeinitaly è una piattaforma digitale che mette in comunicazione le piccole-medie aziende italiane (prevalentemente del mondo fashion e del design) con acquirenti internazionali, che siano buyer, boutique, negozianti o brand. Insomma, una sorta di fiera online sempre aperta.

“Il fatto che i viaggi fossero limitati ha dato una spinta alla nostra piattaforma”, ci ha raccontato Mutto. “Però è vero che prima della pandemia c’era una sorta di rigidità nelle aziende nell’acquisire nuovi strumenti digitali. Oggi è impensabile. Bisogna adattarsi al cambiamento e coltivare gli strumenti giusti per essere sempre più efficienti nel lavoro”.

 

Non ci si salva da soli

Mi sembra che queste due startup abbiamo in comune un certo senso di comunità, un modo di fare le cose insieme, di unirsi in un momento di crisi. Perché da questa crisi non ci si tira fuori da soli. “O si va tutti insieme nella stessa direzione o non avremo un’altra chance”, come ha detto nell’incontro Paolo Iabichino.

Creare un marketplace che raccolga tutte le realtà imprenditoriali italiane è anche un modo di ricostruire la nostra società, di rimettere insieme i pezzi della collettività messa a dura prova dalla pandemia. L’esperienza di queste due giovani imprese ci dice che, tutti insieme, possiamo ottenere risultati importanti. E la cosa ci fa ben sperare per il mondo che verrà.

L’importante è rimanere aperti.

 

Il secondo incontro dell’Età Ibrida potete recuperarlo qui.

Il prossimo appuntamento è per il 20 settembre (sì, in piena fashion week milanese) insieme a Giuseppe Stigliano, CEO di Wunderman Thompson Italy. Parleremo dell’industria della moda, delle nuove sensibilità del marketing e delle possibilità che ci offre il digitale. Se volete prepararvi, Stigliano è anche co-autore del testo “Retail 4.0 | 10 Regole per l’Era Digitale”, che ha scritto insieme al guru del marketing Philip Kotler.

Ma l’Età Ibrida non si ferma. La nostra è una piattaforma in-formativa, nel senso che ospita informazioni ma anche strumenti di formazione. E attraversarla vuol dire incontrare articoli, podcast, riflessioni e lezioni. Come sempre grazie a Punto Impresa Digitale, a Tavolo Giovani e alla Camera di commercio Milano Monza Brianza Lodi. Una compagine affiatata che ci ha dato la possibilità di costruire questo percorso ibrido insieme a voi.

 

Marisandra Lizzi

L’Età Ibrida | Open Retail – intervista a Domenico Romano

Stay hungry, stay open
Rimanere aperti è la prossima sfida da affrontare per il mondo del retail

 

Quando l’epidemia di Covid è scoppiata in Italia, Domenico Romano lavorava come Direttore marketing in AW LAB, uno dei principali retailer di abbigliamento sportivo di tutta Europa. Allora non c’erano molte alternative: bisognava fermarsi, bisognava chiudere.

Eppure proprio in quei mesi più bui, quelli in cui il pianeta sembrava trincerarsi contro un nemico invisibile, Romano si immagina un mondo del retail nuovo, finalmente più aperto, in ascolto dei propri clienti, ibrido. È così che è nato il suo libro, Open Retail, un saggio epistolare scritto insieme al libraio Luca Moretti. Tra quelle pagine si ripensa il senso stesso dello stare aperti.

Perché open non vuol dire soltanto alzare la serranda. Ma significa soprattutto rimanere attenti ai cambiamenti, lavorare sulle proprie barriere cognitive e non smettere mai di imparare.

Insomma, le piattaforme tecnologiche si evolvono e si evolveranno sempre, così come le esperienze di consumo dei nostri clienti. E rimanere aperti non basta più, serve qualcos’altro. Serve un’innovazione sostenibile e duratura, funzionale sia per il mondo sia per le persone che lo abitano.

Domenico Romano, Amministratore delegato di Fandango Club Creators , al secondo appuntamento de L'Età Ibrida

La crisi del mondo del retail

Oggi Domenico Romano è Amministratore delegato di Fandango Club Creators e si occupa di grandi eventi, ma tutta la sua vita è stata dedicata al retail, grazie a diversi lavori in agenzie di comunicazione e aziende tra Stati Uniti, Europa e Asia.

Ci ha raccontato durante il secondo incontro dell’Età Ibrida:

Se guardiamo i dati sulle chiusure dei negozi dei principali retailer del mondo, ci accorgiamo che la crisi di questo settore non è iniziata con la pandemia, ma è scoppiata già nel 2015

E i motivi sembrano essere riconducibili a tre cause principali:

  1. Una crisi di distribuzione
    Se soltanto una decina di anni fa il mondo del retail era costituito essenzialmente da tre tipi di negozi (multimarca, retail dei brand e negozi indipendenti), oggi esiste una sovrabbondanza di soggetti grazie alle nuove possibilità offerte dal digitale. Non si parla soltanto di e-commerce, ma anche di hybrid commerce e di realtà di frontiera, in cui la vendita fisica si innesta su un terreno virtuale. Insomma, ormai il prodotto si trova ovunque e per questo ha perso la sua centralità. E così il problema non è più distributivo, ma si sposta su un altro ambito, su un terreno sociologico.
  2. A chi stiamo parlando?
    Per la prima volta nella storia, sul nostro pianeta coabitano ben sette generazioni differenti: sette generazioni che hanno attraversato mondi parecchio distanti tra loro, affrontando le proprie esperienze di consumo in modo radicalmente distinto.
    Per questo è impensabile parlare a tutti con uno stesso linguaggio. Tanto più che le due ultime generazioni (i Millennial e la Generazione Z) stanno riscrivendo gran parte degli assiomi del marketing. Esiste un nuovo paradigma per l’autenticità, i concetti di genere e di razza stanno sparendo e la bellezza sta prendendo nuove forme.

    Si sta passando dallo storytelling allo storyliving: non basta più conoscere la storia di un brand, bisogna farne parte. Serve esprimersi liberamente e imporre un nuovo mantra che vada ben oltre il prodotto: la relazione con i propri clienti. Cercare di intessere questa relazione, oggi, è l’obiettivo di qualsiasi retailer. Oggi, è l’unica ossessione che debba animare questo mercato.
  3. Una rivoluzione mediatica
    Internet ha imposto soprattutto una rivoluzione nel mondo dell’informazione e dell’intrattenimento. Se una trentina di anni fa i media tradizionali dettavano le tendenze e i miti di una generazione, oggi al massimo li raccontano, inseguendo un interesse che nasce da qualche altra parte, dentro le bolle del web o su piattaforme che fino a poco tempo fa neppure esistevano.
    Imparare questi nuovi linguaggi è essenziale per rimanere sul mercato, aggiornarsi sulle tecnologie un tassello fondamentale del proprio business.

Gli incontri de L'Età Ibrida tornano in presenza a Palazzo GiureconsultiInseguire il futuro

Certo, la rivoluzione digitale ha cambiato il mondo.

E con la pandemia il cambiamento è diventato sempre più veloce. I clienti sono meno, ma sono più interessati all’acquisto. L’e-commerce va sempre meglio, ma assume forme ibride, mescolando l’esperienza online con quella fisica, che rimane una componente essenziale per sviluppare una relazione coi propri clienti che sia davvero duratura.

Lo stesso dovrebbe accadere al mondo del retail, ma all’inverso.

È necessario che i negozi al dettaglio si evolvano insieme ai nuovi strumenti del digitale, per esempio imparando tecniche di acquisizione del dato, esternalizzando i magazzini oppure offrendo un prodotto personalizzato.

Romano lo chiama il “modello barbiere”: i negozi si aprono su appuntamento e gli addetti vendita diventano dei personal shopper. Così, oltre a ottimizzare il posto lavoro, si conoscono i propri clienti, si compra meno e meglio, si crea esclusività in un mondo iperframmentato.

“Le nuove generazioni sono sempre più coraggiose e hanno più futuro che passato, proprio come i nostri negozi”, conclude Romano. “È una generazione che scende in piazza per i propri ideali, che vive in classi multietniche, che non conosce differenze di genere, che si batte per un mondo più sostenibile. A noi non resta altro che riflettere e cercare di creare un business a misura di questa generazione, una realtà che viva tra pagine mai scritte, dentro laboratori di futuro e non di passato”.

 

Per recuperare l’intervento completo di Domenico Romano, potete andare sul canale YouTube della Camera di commercio Milano Monza Brianza Lodi: lo trovate qui.
Il prossimo appuntamento live con l’Età Ibrida è per il 20 settembre alle 18.00 con Giuseppe Stigliano, CEO di Wunderman Thompson, sempre da Palazzo Giureconsulti. Ma noi non ci fermiamo. Seguici sui nostri canali per scoprire tutte le novità ibride!

OPEN: Il futuro del retail è aperto

Quando ero piccolo i miei avevano un bar.

Era un bel locale, ampio e luminoso, con tante vetrine. Ci passava sempre molta gente, perché era all’angolo di una piazza trafficata, proprio sulla circonvallazione di Milano. Io bazzicavo lì tutto il pomeriggio, dopo la scuola. Mi divertiva stare con i clienti e prendere ordinazioni come se fossi già un ragazzo grande. Insomma, non sto troppo a menarvela, quella è stata una grande scuola.

Perché il bar è un luogo particolarissimo, un vero e proprio modo di intendere la vita. In Italia possiamo dire che ormai sia quasi un simbolo: non è soltanto un negozio né un punto di incontro. È un luogo collettivo. In qualche modo, è fatto da tutte le persone che quel bar lo frequentano e non solo da chi lo gestisce. È una sorta di esperienza comune, nel senso che siamo tutti parte di quell’esperienza. Ma è anche un luogo dove riconoscere la propria identità, perché ogni individuo vive quel posto in maniera diversa.

Su internet capita più o meno la stessa cosa. Se ci pensate, la rete è scritta da tutti gli utenti, letteralmente. La grande rivoluzione del digitale sta proprio in questo: nello spostare il punto di vista, nell’ascoltare tante voci, anzi proprio tutte le voci del mondo, perché chiunque abbia qualcosa da dire trova su internet il suo spazio. Uno spazio virtuale che così diventa memoria collettiva.

Finalmente siamo tutti collegati: eccolo lì il mondo globalizzato.

Ma che fine fanno i negozi al dettaglio in tutto questo?

Gli orizzonti sono cambiati, ormai lo sappiamo. Durante la pandemia abbiamo assistito a una crescita vertiginosa delle vendite online, ma soprattutto siamo cambiati noi, perché abbiamo cambiato il modo in cui vediamo ogni nostro acquisto. Non possiamo dare tutta la colpa al Covid_19, però. La crisi del retail ha radici molto profonde, molto più vecchie della pandemia e che vanno indietro di almeno dieci anni. Perché il digitale sta lentamente soppiantando un certo modo di fare shopping, sta cancellando un tipo di esperienza di acquisto che va ben al di là del “comprare qualcosa perché ne ho bisogno”. Sfogliare le pagine di un libro, chiedere consigli a un commesso per sapere quale sia il vino più delicato, uscire da un negozio sapendo che i pantaloni che hai appena comprato ti stanno davvero bene perché li hai provati e li hai confrontati con altre cinque paia.

Oggi invece le distopie del mondo retail ci raccontano uno spazio vuoto, senza commessi, regolato soltanto da intelligenze artificiali che ci spiano, ci contano e imparano a conoscerci. Non trovate che manchi qualcosa? Difficile puntare il dito su un elemento in particolare, forse la chiamerei semplicemente l’empatia. Ritrovare quella rete di relazioni, di emozioni, di scambio proficuo che si crea durante l’acquisto, tornare a un mondo in cui comprare non è più un bisogno compulsivo, ma una necessità, un’esperienza umana.

Un po’ come il bar sotto casa.

Se ci pensate il bar è l’unica cosa che su internet proprio non si può replicare. Un luogo di ritrovo in cui sentirsi a casa, un posto in cui non devi andare ma in cui vuoi andare. E non tanto per quel che consumerai, ma per un certo tipo di esperienza, di vita in comune, di sensazioni e di emozioni.

Forse possiamo lasciarci ispirare da questo nostro simbolo nazionale per ricostruire una parte di mondo che con la pandemia si è visto sempre più minacciato, un mercato che deve affrontare nuove sfide e ridefinirsi, ripensando un paradigma che sia valido e sostenibile anche nel futuro.

Giovedì 15 luglio alle 18.00 ne parliamo insieme a Domenico Romano, Chief Executive Officer di Fandango Club, che proprio durante la pandemia ha scritto “Open Retail”: un saggio epistolare realizzato insieme a chi il negozio al dettaglio lo vive ogni giorno sulla propria pelle: il libraio Luca Moretti. Se volete seguire il secondo appuntamento dell’Età Ibrida insieme a noi, potete registrarvi gratuitamente a questo link oppure venire a trovarci a Palazzo Giureconsulti per il primo evento live dopo davvero tantissimo tempo (sì, siamo parecchio emozionati).

Ci vediamo lì, il caffè ovviamente ve lo offriamo noi.

Paolo Iabichino