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2021

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Il Digital Mentoring colpisce ancora!

Pc Planet nasce nel 1997 per volontà di un gruppo di professionisti provenienti ognuno da esperienze specifiche nel mondo dell’Information Technology.

Produciamo software gestionali, applicazioni web e mobile, implementiamo soluzioni per infrastrutture in Cloud, ci preoccupiamo del sistema informativo e della sicurezza in campo IT dei nostri clienti.

Avvia la sua attività su 3 solide fondamenta: Persone, Innovazione, Tecnologia, al servizio delle Imprese e degli Studi Professionali.

La nostra ambizione è creare valore per i nostri clienti, sempre al centro di ogni nostra attività, progettando e realizzando sistemi e soluzioni gestionali che offrano risposte alle esigenze di business con cui l’Azienda e gli Studi Professionali si misurano costantemente.

Le competenze del nostro team insieme all’esperienza ventennale in ambito software gestionale e infrastrutture IT, ci consentono di rispondere alle diverse esigenze della piccola e media impresa e degli studi professionali, come testimoniano gli oltre 500 clienti che ogni giorno si affidano ai nostri servizi.

Nel 2019 da Pc Planet è nata Innoviasoft Srl che prosegue l’attività di ricerca e sviluppo nelle soluzioni gestionali integrate.

Paono Fanelli, imprenditore presso Pc Planet
Nicola Caimi, Digital Mentor presso Punto Impresa Digitale

Quali erano le vostre richieste rivolte al Punto Impresa Digitale e quali obiettivi vi eravate posti?

Paolo Fanelli (imprenditore):

Il nostro obiettivo è stato quello di provare a passare da un modello di sviluppo business prevalentemente passivo, basato sul passaparola dei clienti soddisfatti, ad un modello proattivo basato sulla capacità di farsi trovare dalle nuove categorie di compratori che usano strumenti di ricerca in rete a complemento delle proprie relazioni personali.

Infatti, per aumentare la visibilità di Pc Planet e di Innoviasoft è stato progettato un percorso iniziato con l’identificazione dei caratteri differenzianti del portafoglio soluzioni, creazione di contenuti, revisione del sito aziendale e redazione di un palinsesto di comunicazioni multicanale che ha permesso di aumentare la visibilità delle società.

Fin dal primo incontro con Nicola Caimi, abbiamo capito immediatamente quanto un piano d’azione ben strutturato e delle basi strategiche solide fossero necessarie per raggiungere lo scopo.

Quali azioni sono state messe in campo per raggiungere gli obiettivi?

Nicola Caimi (Digital Mentor): Come prima azione abbiamo condiviso e definito l’obiettivo principale del progetto che consisteva nel costruire un piano di sviluppo commerciale “digital oriented”, finalizzato alla promozione sistematica di Pc Planet sul mercato, affiancando al tradizionale passaparola una presenza significativa sulla rete. Abbiamo quindi concordato il team di progetto, svolto alcune attività propedeutiche e, infine, siamo passati alle fasi operative di esecuzione del piano.
Le attività di preparazione sono state:
-revisione e ottimizzazione del posizionamento societario e del portafoglio di servizi offerti con particolare attenzione a Innoviasoft, start-up dedicata allo sviluppo di applicazioni WEB custom e, in previsione, motore del new digital business per gli anni a venire;
-introduzione di strumenti e metodologie per l’acquisizione di nuovi clienti;
-valutazione dell’attuale eco-sistema di business;
-introduzione di strumenti e metodologie per lo sviluppo della presenza e commercializzazione via web;
-definizione di un palinsesto multicanale di comunicazione di contenuti.

Quali risultati sono stati raggiunti?

Paolo Fanelli (imprenditore): Con la guida di Nicola abbiamo seguito un percorso di promozione sistematica e regolare che abbiamo definito insieme e che con l’esperienza andremo a rifinire.

In un settore come il nostro, farsi riconoscere non è mai facile. Di prodotti ERP sul mercato ce ne sono innumerevoli, ma grazie alla consapevolezza raggiunta dei nostri punti di forza siamo riusciti a farci notare!

Con le autoanalisi fatte, gli incontri con il nostro DM e tanta voglia di mettersi in gioco, abbiamo raggiunto l’obiettivo e siamo riusciti a comprendere meglio cosa significhi essere un’azienda Digitale.

Nicola Caimi (Digital Mentor):  Il progetto ha consentito di introdurre:

  • Metodi e strumenti di valutazione periodica degli asset in termine di risorse e soluzioni come l’analisi di skill disponibili, portafoglio soluzioni e ABC del portafoglio clienti
  • Metodi e strumenti di Digital Marketing & Communication:
    -Valutazione e piano di aggiornamento del DB contatti
    -Valutazione e implementazione nuove funzionalità del CRM
    -Modello di progettazione e creazione contenuti business oriented
    -Schema di progettazione e implementazione palinsesto multicanale di comunicazione
    -Modello di progettazione e organizzazione eventi on-line a tema con testimonial
    -Riorganizzazione sito aziendale
    -Riorganizzazione pagine aziendali su Social Professionali
    -Modello di progettazione e creazione survey clienti

In fase di esecuzione, i principali nuovi elementi introdotti sono:
-Classificazioni e segmentazione clienti in modello ABC
-Nuova presentazione aziendale istituzionale
-Nuove landing page tematiche
-Piano di comunicazione su Professional Social
-Nuova struttura del DB contatti
-Webinar tematici con testimonial
-Piano di follow-up post eventi
-Somministrazione questionario Customer Satisfaction

Consiglierebbe, e perché, ad un'altra azienda di rivolgersi al PID?

Paolo Fanelli (imprenditore): Assolutamente sì. Avere avuto una figura come Nicola a guidarci in questo percorso è stato fondamentale.

Siamo riusciti infatti a scindere il futile dal necessario, evitando di perdere tempo nel tentare autonomamente di entrare in questo “nuovo” mondo.

Le analisi e le strategie suggerite dal nostro DM si sono infatti sempre rilevate corrette e utili per proseguire verso l’obiettivo preposto.

Trasformazione digitale: qual è il valore aggiunto che da professionista può dare ad un'impresa nella scelta delle strategie migliori da attuare?

Nicola Caimi (Digital Mentor):

La scelta di una strategia di crescita commerciale richiede piena consapevolezza della situazione oggettiva corrente (dove siamo) e degli obiettivi che si vuole raggiungere (dove vogliamo andare). E aiutare l’imprenditore, o il board, a valutare correttamente il proprio posizionamento reale nel mercato e individuare i percorsi sostenibili di crescita credo sia il primo passo, fondamentale, di questo tipo di attività.

Questa attività non deve però limitarsi alla teoria. Il DM deve anche trasferire le conoscenze e la pratica per creare i modelli dei nuovi processi da introdurre. Si devono definire i criteri di successo (KPI) delle iniziative in modo concreto e misurabile, per valutarne la correttezza ed eventualmente proporre le correzioni.

Nel progetto di PC Planet, alla fase di analisi iniziale e definizione degli obiettivi è seguita la fase esecutiva in cui sono state implementate da PC Planet, con la supervisione del DM, le iniziative progettate. Tutte le iniziative implementate sono adesso dei processi standardizzati, documentati e replicabili.

Vuoi essere il protagonista della prossima storia?
Affidati al servizio di Digital Mentoring del nostro Punto Impresa Digitale

Il controcanto | La sostenibilità che inquina

Quattro monaci sono chinati in avanti, assorti. Le gambe incrociate, il respiro intrappolato dentro una mascherina, i movimenti ripetitivi ma controllati come in una coreografia ben ponderata. Sopra di loro una cupola rossiccia fatta in legno e tessuto li ripara dalla luce e dal chiasso che c’è fuori.

Siamo nel tempio di Mahabodhi a Bodh Gaya, in India.

Nel suo cortile si trova un albero che da più di cent’anni offre le sue fronde ai fedeli. Si tratta dell’albero della bodhi, uno dei luoghi sacri più importanti della tradizione buddhista. Proprio in questo luogo, sotto i rami di un antenato di questo fico sacro, il Buddha venne colto dall’illuminazione.

Ogni due o tre anni, circa mezzo milione di pellegrini si riuniscono qui per festeggiare la Kalachakra, un rito collettivo che dovrebbe risvegliare il seme di quell’illuminazione, un seme presente in ogni essere vivente.

Ne La ruota del tempo, il documentario di Werner Herzog che racconta la cerimonia del 2002, il regista tedesco incontra un monaco che compra tre uccellini da un bambino per strada e poi li libera. “Perché liberi gli uccelli?”, gli chiede. “Perché tutti gli esseri viventi sono uguali”, risponde il monaco. “Tutte le creature hanno diritto a diventare un Buddha, ma per diventare un Buddha bisogna essere liberi”.

Per simboleggiare questa unità del cosmo, la manifestazione ruota attorno alla creazione di un quadro: il mandala di sabbia. Per un occidentale non è facile capirne il significato. Si tratta di una composizione geometrica circolare che rappresenta la reintegrazione dell’esperienza individuale nell’unità primordiale del cosmo. Il Dalai Lama, sempre nel documentario, lo descrive così:

Il vero mandala prima si medita sul vuoto, il sunyata. Quindi la mente, che è completamente assorbita da quella natura suprema, si trasforma nel mondo fisico. E così è per il mandala… un mandala interiore. E contiene anche delle divinità. Sono circa settecento o settecentoventi… ora non ricordo. [ride] Così, tutte queste divinità in luoghi diversi simboleggiano tanto la struttura del nostro corpo quanto la cosmologia. Pertanto, l’elemento principale è la visualizzazione. Non un mandala esteriore, ma un mandala interiore. Un certo tipo di visualizzazione”.

Due squadre di quattro monaci lavorano instancabilmente per parecchi giorni dalle sei di mattina fino a mezzanotte per realizzare questo quadro complessissimo. A guidarli, una biblioteca colma di istruzioni. Si inizia dal centro, che rappresenta la ruota del tempo, e poi si passa alle periferie. I cilindri che i monaci usano per disegnare con la sabbia fregano gli uni contro gli altri provocando un rumore come un frinire di cicale. Attorno a loro i Lama di alto lignaggio intonano cantilene, fanno risuonare piccole campane, abbozzano danze sacre.

Pian piano si forma una figura, una sorta di mappa. I toni sono quelli dell’ocra, dell’arancio e del verde. Sì, sembra proprio una mappa, una carta del cielo concentrica, solo che noi non sappiamo dove siamo né quale sia la meta. Ci sentiamo come dei viaggiatori pronti a incamminarci verso terre sconosciute, dove ogni posto è casa.

 

Ripercorrere il cerchio

Mandala in sanscrito significa cerchio, che più che una forma è un archetipo dell’inconscio collettivo. Fin dall’antichità, infatti, il cerchio ha rivestito significati spirituali legati al tempo, alla ciclicità delle stagioni e all’infinito.

I Babilonesi furono i primi a usare il cerchio come una misura per il tempo, formulando il concetto di mesi e di stagioni all’interno dei quali ancora oggi noi ci muoviamo. I Greci rappresentavano la ciclicità del tempo col simbolo dell’Uroboro, un serpente che si morde la coda. Nel Cristianesimo la vesica piscis è un simbolo a forma di mandorla che si ottiene dall’intersezione di due cerchi. Richiama la comunicazione fra due mondi, il piano materiale e quello spirituale, l’umano e il divino, e la loro unione.

All’interno del cerchio possiamo trovare molte delle risposte che stiamo cercando, persino quelle legate alla crisi economica che stiamo vivendo. La sua forma è un’aspirazione, una visione, proprio come il mandala. E seguire quel percorso infinito paradossalmente potrebbe portarci abbastanza lontano.

Perché l’unico modo per uscire dal pasticcio in cui ci ha ficcato un certo tipo di capitalismo tossico è percorrere la traiettoria segnata da un cerchio, ricostruire una filiera ignorata per anni, ridisegnare il proprio business in un’ottica olistica calcolando anche tutta quella catena di conseguenze che inneschiamo al di fuori del nostro settore, facendo i conti con l’impronta che la nostra realtà ha nell’ecosistema in cui lavoriamo.

Oggi siamo in un mondo transepocale, nel senso che stiamo entrando in una nuova epoca.

Il digitale ha cambiato le carte in tavola e non possiamo più permetterci di rispondere ai vecchi problemi con la mentalità che ci ha portato fin qui. “L’ecosostenibilità è un prerequisito per stare sul mercato.

È una pretesa urgente e indispensabile, non potrà più essere un vanto pubblicitario o un’invenzione di marketing” recita la prima tesi del Newtrain Manifesto.

Ma attenzione, perché l’ecosostenibilità non vuol dire soltanto prendersi cura dell’ambiente, ma piuttosto creare un modo di fare mercato che non crei disuguaglianze, che dia accesso a tutti alle stesse possibilità, che riveda i paradigmi che stanno portando al collasso l’intero pianeta.

Ecosostenibilità vuol dire cambiare completamente la nostra vita e farlo in maniera profonda. Visualizzare un mondo diverso per noi e per i nostri figli, mettersi in risonanza con l’universo, rimanere sempre in ascolto, cambiare rotta se necessario, creare un’economia circolare che non abbia al centro il profitto ma il pianeta. O magari la ruota del tempo.

Oggi partiamo da qui, da questo mandala che proveremo a costruire insieme.

 

Il vero costo dei jeans

La mattina del 23 aprile del 2013 a Savar, un sub-distretto bengalese a 24 chilometri da Dacca, alcuni ispettori della sicurezza dichiararono il Rana Plaza un edificio inagibile e pericolante a causa di diverse crepe comparse sui muri, che si stavano facendo sempre più ampie e profonde.

La struttura a otto piani era stata costruita abusivamente da un giovane imprenditore su quel che restava di un lago prosciugato in maniera artificiale. La gran parte delle società che aveva sede al Rana Plaza decise di chiudere, mentre i proprietari delle cinque fabbriche tessili, che producevano vestiti per tutti i più grandi marchi di moda del mondo, costrinsero i propri dipendenti a recarsi a lavoro nonostante i divieti, minacciando ripercussioni economiche.

Il 24 aprile, alle 8:45, l’edificio collassò uccidendo 1.134 persone, per la maggior parte donne. Si tratta del più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia e il cedimento strutturale accidentale più letale della storia moderna.

All’indomani del crollo più di duecento brand internazionali si sono mobilitati per sottoscrivere accordi e contratti in modo da portare nelle 1.600 fabbriche bengalesi condizioni di lavoro più sicure. Ma dopo otto anni di lutto la situazione sembra ancora molto critica.

A novembre del 2020 dodici persone sono state uccise da un’esplosione in uno stabilimento tessile del Gujarat, in India. Quest’anno, a marzo, venti persone sono morte e decine sono rimaste ferite per un incendio divampato in una fabbrica di abbigliamento de Il Cairo, dove una decina di giorni dopo è scoppiato un opificio causando la morte di otto lavoratori e ferendone altri trentanove. A inizio luglio, a Rupganj, sono morti cinquantadue operai in un incendio divampato all’interno di un’azienda alimentare.

La pandemia non ha migliorato le cose. Le chiusure in occidente hanno portato alla cancellazione di ordini per miliardi di dollari, mentre l’aumento dei casi di Covid in Bangladesh ha fermato tutte le attività fuorché quelle del settore tessile, rappresentando un ulteriore rischio per i lavoratori. Aumentano le attività antisindacali e le denunce per molestie sul posto di lavoro, mentre rimangono i problemi legati alla protezione sociale e ai salari troppo bassi.

Sostenibilità vuol dire anche questo. Vuol dire creare un ecosistema duraturo, equo e di lungo periodo, un ecosistema che racconti un nuovo modo di stare sul mercato che rispetti le persone e l’ambiente che ci accoglie.

Secondo le previsioni di uno studio del WWF, il fabbisogno di abbigliamento continuerà a crescere, passando dai sessantadue milioni di tonnellate del 2015 a poco meno del doppio per il 2030. Oggi si fabbricano circa cinque miliardi di jeans l’anno. Ogni pezzo richiede l’utilizzo di 7.500 litri d’acqua, per quelli scoloriti dovreste aggiungerci altre centinaia di litri e agenti chimici che stanno inquinando i terreni dei paesi più poveri.

Il problema è che l’industria della moda riguarda tutto il mondo, perché unisce dentro un unico spazio coloro che i vestiti li fanno, quelli che li vendono e poi tutte quelle persone che quei vestiti finiranno per indossarli. È impossibile deresponsabilizzare anche soltanto un tratto di questa filiera: è il mondo che ce lo chiede.

Dietro i prezzi bassi di un certo tipo di fare mercato occorre tenere il conto anche di tutti quei costi che sta pagando qualcun altro, da qualche altra parte del mondo: il costo dell’inquinamento, il costo dello sfruttamento, il costo del consumismo incurante.

Di fronte a questi disastri ci sarebbe un altro tipo di ecosistema che andrebbe salvaguardato: quello dell’immaginario. In un momento in cui avremmo bisogno di azioni di bonifica semantica per evitare le banalizzazioni, stiamo assistendo a ipernarrazioni che depotenziano l’urgenza.

Quello che è successo quest’estate in tutto il mondo è significativo: incendi, alluvioni, il Covid stesso. Sono tutte conseguenze dentro una complessissima catena di azioni e reazioni. Come se Gea si stesse ribellando, come se si stesse riprendendo velocemente tutto quel che le abbiamo tolto.

Dobbiamo farci pace, in fretta.

Le parole della sostenibilità in questo momento non possono più essere sprecate. E’ necessario che vengano seguite da azioni concrete in modo da evitare che sulla sostenibilità si giochi una partita narrativa o una narrazione tossica.

Venerdì scorso Banca Etica ha chiuso tutte le sue filiali per partecipare a Fridays For Future, per spingere i propri soci e clienti ad abbracciare la lotta contro il cambiamento climatico. Il giorno delle elezioni americane Patagonia ha chiuso tutti i suoi negozi per permettere ai propri dipendenti di andare a votare. È questo il significato di un’azione di sostenibilità. Nel 2021 vedere una pagina quattro colori che pubblicizza il primo bilancio di sostenibilità vuol dire essere in ritardo. Tremendamente in ritardo.

La sostenibilità è una pretesa urgente e indispensabile, non può più essere un vanto pubblicitario o un’invenzione di marketing. Un vecchio adagio in pubblicità sostiene l’importanza del “purché se ne parli”, non importa se bene o male, l’importante è che se ne parli. Niente di più pericoloso in questo momento storico per brand e per la sua reputazione.

Oggi la cosa più difficile da custodire e trasmettere è la coerenza del proprio punto di vista sul mondo.

Sono in tanti ad aver abdicato per rincorrere nuovi target, per sbandierare valori e principi etici con la speranza di sedurre le sensibilità delle nuove generazioni di consumatori.

Cambiate rotta, il nostro mondo è in fiamme.

 

Sì, viaggiare: ma a che prezzo?

Ma l’industria della moda non è la sola a dover cambiare passo.

La sostenibilità dei luoghi passa anche attraverso il turismo e alla sua capacità di ridisegnare il paesaggio, e con loro anche gli immaginari. Per molto tempo abbiamo vissuto i nostri viaggi con una sorta di rapacità intellettuale, nutriti da iperboli narrative e dinamiche iperconsumistiche che hanno finito per stravolgere località e orizzonti.

A pagarne il prezzo, anche in questo caso, sono stati soprattutto le destinazioni stesse e gli addetti ai lavori. Perché cambiare narrativa vuol dire cambiare il modo di vedere le cose. Vuol dire creare una realtà diversa per lo spettatore che entra nel nostro universo seguendo nuove regole.

Così se raccontiamo un luogo come un prodotto, come qualcosa di facilmente accessibile attraverso cataloghi di vendita o hashtag sui social media, corriamo il rischio di perdere una connessione sincera con l’identità di quel posto, con tutte quelle esperienze che definiscono il carattere di un territorio. Quel che resta sarà solo l’istanza consumistica, il racconto dell’esperienza a scapito della conoscenza.

Perché, vedete, proprio dentro il concetto di esperienza abbiamo ridisegnato questo settore. Pensate a come sono cambiate le tracce che un viaggio lascia dietro di sé. Un tempo si scrivevano le cartoline, documenti che racchiudevano un certo valore testimoniale. Una cartolina raccontava un affetto, un pensiero riferito al destinatario, un certo tipo ipersemplificato di corrispondenza. Spero di non sembrare un nostalgico, ma un post su un social media, narrativamente, sposta il punto di vista dalla rappresentazione del luogo alla vetrinizzazione dell’esperienza. Si porta appresso un doppiofondo narcisistico che ostenta una cornice e non il quadro stesso.

Quando si preferiscono le dinamiche dei like a quelle delle narrazioni valoriali, il racconto si intossica e si piega a una grammatica costruita a tavolino, dentro le stesse logiche iperconsumistiche che hanno portato all’overtourism. L’industria del turismo è stata una delle prime ad appropriarsi di un marketing esperienziale, cucendo addosso al prodotto una qualche esperienza, ostentata e piatta, che non ha portato alla scoperta di nuovi luoghi. Piuttosto ci ha condotto alla creazione di grandi melasse esperienziali, cluster di esperienza da ricreare in qualsiasi luogo e sotto qualsiasi forma. L’identità dei luoghi viene confezionata e consumata, invece di essere narrata e ascoltata, conosciuta a fondo e poi esperita con consapevolezza.

Raccontare porta con sé una responsabilità enorme, perché a seconda di come parliamo siamo in grado di attrarre pubblici diversi.

In funzione delle nostre parole possiamo guidare questa industria verso una voracità narcisistica oppure lungo una strada fatta di incontro e confronto. Anche se questo lavoro richiede fatica e impegno. E non sto parlando soltanto agli addetti ai lavori che del turismo hanno fatto la loro vita, ma anche a tutti gli enti, le istituzioni, le amministrazioni e poi a te che leggi e a me che scrivo, ai turisti stessi, a quelli che i viaggi li fanno.

Un nuovo senso di responsabilità ci deve investire per abbracciare davvero quella sensibilità civica che sta occupando sempre più spazio nel dibattito sociale, per diventare una parte attiva di questi mutamenti, sia come professionisti che come clienti, in un racconto che protegge e non consuma, che ricerca e non ostenta.

 

Il digitale ci salverà? Nì.

Con l’arrivo della pandemia le nostre vite si sono fatte sempre più ibride.

Gli strumenti digitali ci hanno aiutato moltissimo nella gestione di grandi volumi di dati. Hanno permesso agli scienziati di tutto il mondo di collaborare anche a grandi distanze. Gli Stati hanno trasferito online la maggior parte dei loro servizi. Le aziende hanno spostato le loro attività (quando possibile) in smart working, ma non solo. Perché anche nella nostra vita quotidiana ci siamo affidati sempre di più al digitale, che è diventato ormai un vero e proprio habitat, un posto in cui leggiamo, parliamo, stiamo con i nostri amici, lavoriamo, ci rilassiamo, studiamo il mondo.

Da un certo punto di vista, il digitale ci ha salvato la vita, o almeno ci ha dato parecchi strumenti per superare questa crisi globale. Eppure non possiamo usare la tecnologia come se fosse la panacea per tutti i mali.

Perché se è vero che spostare un certo tipo di attività online può aiutare a ridurre il nostro impatto sull’ambiente, è necessario anche incentivare un’economia circolare e supportare la decarbonizzazione in tutti i settori per far sì che ci sia un reale cambiamento nel mondo.

La verità è che fino a oggi le transizioni digitali hanno perpetuato gli stessi modelli di crescita e di consumo delle risorse responsabili del riscaldamento globale. E le prospettive per il futuro non sono rosee.

Nel 2008 le tecnologie digitali hanno contribuito per il 2% alle emissioni globali di CO2, nel 2020 sono arrivate al 3,7% e – secondo le previsioni di The Shift Project – nel 2025 toccheranno l’8,5%.

E non è soltanto una questione demografica. I dispositivi connessi stanno crescendo di un 10% l’anno, molto più velocemente degli utenti di internet, che invece registrano un aumento annuo del 6%. Il mondo digitale è in continua espansione alimentato dalle nuove tecnologie dell’internet delle cose, dalla robotizzazione, da tutti i dati che quotidianamente aziende, industrie e centri di ricerca si scambiano sui propri utenti. Certo, possiamo metterci del nostro: guardare dieci minuti di un video HD in streaming ha lo stesso impatto energetico di tre minuti di un forno a piena potenza. Possiamo consumare meno.

Ma il problema non sta soltanto in quanto usiamo i dispositivi digitali.

Il cloud è un’infrastruttura che si sta facendo spazio nel nostro mondo fisico attraverso cavi, router e satelliti, ma soprattutto con enormi data center.

Uno studio del 2017 di Greenpeace racconta l’impronta energetica delle grandi aziende digitali negli Stati Uniti. La Apple è tra le più virtuose usando l’83% di energia rinnovabile, mentre Google è soltanto al 56%, la Microsoft al 32% e Amazon – di cui si sa molto poco – si muove ancora comprando crediti di compensazione.

Certamente l’efficienza energetica dei dispositivi e delle infrastrutture digitali migliorerà ed è sempre più difficile calcolarne l’impatto reale. Ma una cosa è certa: non possiamo applicare gli stessi schemi iperconsumistici che ci hanno portato fin qui anche a questo tipo di industria. Di tutta la vita di uno smartphone, l’utilizzo da parte dell’utente consuma una frazione molto piccola di energia se paragonata a quella necessaria a estrarre i materiali che li costituiscono, a produrre l’oggetto in sé, a trasportarlo nei negozi e poi a smaltirlo.

Secondo The Shift Project produrre un grammo di smartphone richiede un consumo di energia 80 volte superiore a quello necessario a produrre un grammo di un’auto a benzina.

Per non parlare dell’impatto che ha sulla società.

L’estrazione del coltan e del cobalto è ancora causa di sanguinosi conflitti in Congo, soprattutto nella regione del Kiwu dove si trova l’80% delle riserve mondiali. Questi due materiali sono indispensabili proprio per ottimizzare il consumo di energia di qualsiasi dispositivo digitale e per questo vengono sistematicamente saccheggiati da fazioni di etnia locale finanziate da società di mezzo mondo. Un rapporto Onu del 2002 riporta che le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali in Congo favoriscono i conflitti civili dell’area.

Inoltre, nelle miniere spesso sono impiegati bambini e ragazzini perché più agili e adatti agli spazi angusti. La mortalità è altissima. Secondo Medici Senza Frontiere in tanti muoiono anche per le malattie che questi due materiali portano: cancro, danneggiamento agli organi interni, difetti genetici nella prole e malattie all’apparato linfatico.

Un digitale che sia sostenibile deve prendersi carico di questo mondo interconnesso. Deve mettere in dialogo le scienze dell’informazione con quelle ambientali, l’ingegneria con le scienze politiche. Deve investire su fonti energetiche pulite e rinnovabili, deve innescare processi virtuosi mettendo in conto il costo di tutto il processo produttivo.

E poi c’è un problema di governance, di inquinamento dell’infosfera. Vanno definiti diritti fondamentali e inalienabili per quel che riguarda i dati sensibili delle persone, con un’infrastruttura giuridica condivisa per tutti i paesi del mondo, in cui il conflitto tra i grandi player del digitale possa essere regolato e controllato.

Serve trasparenza e consapevolezza.

Serve una nuova visione del mondo.

 

Oltre il brand activism

I consumatori stanno cambiando.

Stanno cambiando in modo così profondo che la stessa parola consumatore non funziona più. Secondo uno studio di Ipsos quasi la metà degli intervistati dichiara di aver smesso di comprare prodotti o usare servizi perché deluso dal comportamento di certe aziende. E più di un terzo crede che sia compito dei brand incentivare comportamenti responsabili per la società. Certo, questo ci racconta un doloroso processo di perdita di fiducia nelle istituzioni, ma anche un ruolo diverso che le imprese hanno nella vita della gente, per il loro impatto che hanno sul mondo e per tutte le responsabilità che ciò comporta.

La fiducia è un punto cruciale: dobbiamo fare i conti con uno scetticismo di fondo. Ormai sembra che qualsiasi oggetto si proponga di salvare il mondo ed è impossibile credere a tutti. La narrazione deve tradursi in azioni concrete, in un interesse sincero verso i propri dipendenti, in azioni volte a proteggere il proprio territorio, in posizioni chiare sui temi dei diritti civili, sul razzismo e sulla parità di genere.

La stragrande maggioranza degli intervistati da Ipsos crede che le imprese debbano ascoltare i propri clienti per agire in modo responsabile su comunità e ambiente.

In altre parole, le persone vogliono essere parte attiva nella costruzione di un brand, proponendosi di partecipare anche con azioni concrete purché utili a migliorare davvero la vita della gente.

Il Brand Activism è un punto di partenza fondamentale in questo processo. Ma nel momento in cui finisce per assumere un carattere consulenziale, allo scopo di disegnare strategie funzionali per le grandi multinazionali, corre il rischio di dissolversi, di perdere tutta la sua forza.

E oggi, molto semplicemente, non possiamo più permettercelo.

La sostenibilità non può assumere i tratti di un makeup narrativo, ma deve essere inteso in maniera costitutiva. Kotler e Sarkar in Brand Activism riportano una sorta di catalogo per tutte quelle aziende che vogliano diventare attivisti, ma questa strategia finisce per portare a galla dei limiti enormi. In quest’ottica, l’etica è un asset e la prospettiva sostenibile si sviluppa in termini risarcitori.

Non possiamo illuderci che all’improvviso tutte le grandi multinazionali abbiano a cuore le sorti del mondo. La maggior parte, in effetti, sta soltanto cercando di rincorrere il favore degli investitori, che oggi mettono i propri soldi soltanto su realtà sostenibili inseguendo a loro volta i nuovi cluster di consumatori, la generazione Z.

Secondo una ricerca dell’agenzia francese Babel, tre consumatori su cinque dubitano della sincerità delle marche che sbandierano il purpose e l’impegno etico. Sono soprattutto giovani che sono pronti a mettere in discussione le proprie abitudini, perché stanno diventando sempre più consapevoli dei propri acquisti e sanno bene da che parte stare.

Oggi, come mai prima, è necessario scegliere da che parte stare.

Se si vuole andare incontro a questo tipo di consumatore non è sufficiente creare una bella campagna pubblicitaria, un esercizio retorico che non sia seguito da azioni concrete.

Basta vedere quel che è successo con l’arrivo della pandemia: il Covid ci ha urlato in faccia tutta la fragilità del sistema consumistico. Ha puntato una luce su tutta una filiera di lavoratori a lungo dimenticati, ma che si sono rivelati essenziali per la nostra sopravvivenza. Ci ha portato a riscoprire un certo tipo di fratellanza, una solidarietà che avevamo dimenticato, esasperando una tensione che era già nell’aria.

L’attenzione alle tematiche ambientali, alle filiere, ai lavoratori, alle famiglie, alle diversità di ogni tipo, segna un nuovo modo di comprare, ancora prima che di produrre.

E soltanto un nuovo modello di business può andare incontro a queste tensioni. Quanti di noi sono disposti a prendersi davvero questo impegno? Quanti sono pronti a rivedere le proprie filiere, ridimensionando le prospettive di crescita in una logica sostenibile?

Del Brand Activism di Kotler e Sarkar salverei soprattutto il sottotitolo: dal purpose all’azione. È questa la dimensione in cui dobbiamo muoverci. Un’adesione sincera ai valori della sostenibilità, recuperando il perché di quel che stiamo facendo. È l’urgenza di queste tematiche a chiedercelo. Si tratterà di un processo lento, progressivo e organico, ma è un processo che è destinato a durare a lungo.

Non si tratta di aver pazienza, ma di lavorare con onestà a un business plan basato sul purpose.

Io sono figlio di commercianti, so molto bene che cosa significhi alzare la serranda e aspettare che i clienti arrivino.

Ma in una prospettiva in cui cambiano le logiche del mercato, soltanto chi si trasformerà in maniera autentica e credibile guiderà il mercato che verrà.

Tutti gli altri arrancheranno cercando di appropriarsi di un vocabolario che per loro non ha significato.

Scegliete, ora.

Cercate di immettere nel mondo tutto quel che di buono c’è nella vostra attività, rimette in circolo la vostra visione del mondo. La vostra visualizzazione interiore del mondo.

 

In qualche modo si ritorna sempre al cerchio. Una volta finito il mandala di sabbia, i monaci lo espongono ai fedeli dietro una spessa lamina di vetro. È indispensabile proteggerlo perché anche soltanto un respiro potrebbe danneggiarlo, nonostante la celebrazione della Kalachakra finisca proprio con la distruzione del mandala da parte del Dalai Lama.

Si spazzola via fino all’ultimo granello di sabbia, si raccoglie tutto in un’anfora e poi si getta nelle acque del fiume Phalgu dove scorrerà verso il resto del mondo come una preghiera. Fa un po’ effetto vedere tutta quella tensione, quell’attenzione e cura buttata via. M il punto è proprio quello di dimostrare la provvisorietà di tutte le cose terrene. Di celebrare la forza distruttrice come quella creatrice, come due facce della stessa medaglia.

 

Paolo Iabichino

L’Età Ibrida | Ripartenza – L’insostenibile leggerezza del marmo

Michelangelo Buonarroti si definiva un artista “del levare”. I suoi sforzi si concentravano sul togliere la materia fino ad arrivare al corpo del soggetto, che era come imprigionato all’interno del pezzo di marmo. “Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta soltanto spogliarla”, è uno dei suoi aforismi più famosi.

In un certo senso, anche l’azienda che abbiamo incontrato per il terzo appuntamento de L’Età Ibrida parte dallo stesso principio, ma fa il percorso inverso.

Fili Pari è una startup innovativa nata all’inizio del 2020 che ha brevettato MARM\MORE, un tessuto realizzato in polvere di marmo.

La pietra splendente, madre di moltissime opere d’arte fin dall’antichità, in questo processo perde la sua rigidità per trasformarsi in una membrana impermeabile ed estremamente resistente all’abrasione, adatta a diversi usi: dall’abbigliamento all’automotive, dagli accessori all’arredamento. L’idea è quella di partire dagli scarti della lavorazione del marmo per realizzare un prodotto in un’ottica circolare e sostenibile.

Ce ne ha parlato meglio Alice Zantedeschi, co-founder di Fili Pari: “Noi crediamo che il viaggio verso la sostenibilità sia un percorso. Non può cambiare dall’oggi al domani, ma può iniziare da una consapevolezza individuale. Facciamo partire la rivoluzione dal nostro armadio”.

 

La ripartenza

L’industria della moda è tra le più inquinanti al mondo.

Non soltanto perché nasce da un peccato originale, il suo essere ciclica e votata all’eccesso di produzione, ma soprattutto perché per molti anni ha vissuto in compensazione: cercando di ristabilire l’equilibrio dopo aver alterato un ecosistema. Oggi, però, questo modello non funziona più. Ce l’ha spiegato Giuseppe Stigliano, nuovo CEO di Spring Studios, ex CEO di Wunderman Thompson Italy ed Executive Director Europe dell’agenzia di comunicazione AKQA. Ripercorrendo alcune pagine del suo ultimo libro, Onlife fashion: 10 regole per un mondo senza regole, Stigliano ci ha parlato di tutti i cambiamenti che l’industria della moda sta vivendo negli ultimi anni e di come questi stiano modellando scenari futuri ancora da definire.

Certamente, ormai è impensabile tornare alla vita prima della pandemia, e anche le imprese lo stanno capendo.

Il digitale ha scompaginato tutte le nostre certezze e la crisi climatica sta ricostruendo una scala di valori che forse avevamo perso di vista. Oggi è il momento di ripartire, ma perché funzioni davvero occorre farlo con una consapevolezza più profonda del nostro mondo e delle sue fragilità, con una cura particolare per l’ambiente che ci circonda e per le persone con cui lavoriamo.

Proviamo anche noi a trasformare qualcosa di pesante, pesantissimo, come gli ultimi mesi che abbiamo vissuto, in una realtà solida e leggera.

Come? Per esempio, credendo nelle giovani imprese innovative. Come ci ha raccontato Alvise Biffi, Presidente della Piccola Industria Lombardia e Responsabile di Tavolo Giovani: “Le giovani imprese corrispondono a imprenditori anagraficamente giovani soltanto per metà. Le più fortunate, di solito, arrivano da altre esperienze professionali che poi si trasformano in attività imprenditoriali”.

Proprio per creare un terreno fertile per chi voglia fare impresa oggi nasce Tavolo Giovani, uno sportello fisico e virtuale che guida le startup nel mondo della burocrazia, ma soprattutto che crea un palcoscenico attorno al quale si raccolgono esperti, aziende innovative, investitori, esperti e influencer, in modo da costituire un network prezioso dove le giovani imprese possono crescere e migliorarsi.

Anche Fili Pari si è sviluppata dentro questo incubatore. L’idea è nata tra i banchi universitari del Politecnico di Milano e la sperimentazione sul materiale è partita dal progetto di tesi. “La pandemia ha dato un grosso freno”, ha raccontato Zantedeschi. “Tutti i brand hanno fatto scelte più conservative, investendo meno in ricerca e innovazione, perché nessuno sapeva cosa sarebbe successo. Ma noi non abbiamo mollato e abbiamo usato questo tempo per lavorare sul business plan. La parte strategica di solito viene fatta nei ritagli di tempo, ma avere una strategia ben chiara può essere molto utile nelle fasi successive”.

E infatti durante la pandemia le vendite si sono spostate da un modello B2B a un B2C, mettendo in campo tutta una serie di sforzi per creare una connessione con i clienti e trasmettere i valori del brand. Oggi, dopo quasi due anni, l’azienda pensa a un aumento del capitale e a una crescita della produzione. “Noi non abbiamo mollato e l’impegno viene ripagato”, dice Zantedeschi.

 

Il terzo incontro de L’Età Ibrida potete recuperarlo qui.

Il prossimo appuntamento, invece, è per il 13 ottobre insieme ad Alessia Camera, esperta di marketing digitale e autrice del saggio Startup marketing: Strategie di growth hacking per sviluppare il vostro business. Parleremo di growth hacking e marketing, alla ricerca del mix perfetto tra creatività, analisi, strategia e pianificazione del proprio business.

Nel frattempo potete seguirci sulla nostra piattaforma, che raccoglie articoli, podcast, riflessioni e lezioni su questo tempo ibrido. Come sempre grazie a Punto Impresa Digitale, a Tavolo Giovani e alla Camera di Commercio Milano Monza Brianza Lodi, una compagine affiatata che ci ha dato la possibilità di costruire questo percorso insieme a voi.

 

L’Età Ibrida | Ripartenza – intervista a Giuseppe Stigliano

I fili nascosti tra le pieghe del digitale

 La settimana della moda di Milano si fa sempre più ibrida.

Tra gli eventi in programma sono previste 65 sfilate, di cui 42 in presenza e 23 digitali. E poi 108 tra presentazioni ed eventi: 85 in presenza e 23 digitali. In un certo senso è come se il digitale stia cucendo addosso alla realtà analogica nuove dimensioni e possibilità che, fino a pochissimo tempo fa, erano del tutto insperate. I fatturati sono tornati a quelli del 2019, eppure il mondo è cambiato. E non tutto lo dobbiamo alla crisi sanitaria.

Ne abbiamo parlato con Giuseppe Stigliano, nuovo CEO di Spring Studios, ex CEO di Wunderman Thompson Italy ed Executive Director Europe dell’agenzia di comunicazione AKQA. Nel suo ultimo libro, Onlife fashion: 10 regole per un mondo senza regole, un saggio scritto a sei mani con il guru del marketing Philip Kotler e con Riccardo Pozzoli, Stigliano ripercorre i cambiamenti che hanno investito il mondo della moda negli ultimi anni e che l’hanno spinta a reinventarsi, a definire nuovi linguaggi, a ibridarsi con realtà anche molto distanti tra loro.

Luciano Floridi, filosofo e professore ordinario all’Università di Oxford, firma la prefazione del libro indicando la moda come quel settore cardine della nostra industria, un settore che si comporta come una sorta di campanello d’allarme, come un “canarino in miniera”. Analizzarlo non vuol dire soltanto capire un’avanguardia, ma anche – in qualche modo – trovare una via d’uscita da questo mondo in fiamme, perché la moda è “quella tendenza che influenzerà altre tendenze”.

E insomma, proviamo a capire insieme quali sono i fattori che stanno trasformando questa industria a un ritmo sempre più vertiginoso. Stigliano e Kotler li hanno raggruppati in cinque categorie, cinque modi di rileggere il mondo, cinque spunti su cui riflettere.

Accelerazione

E infatti il primo fattore è proprio l’accelerazione.

Nel 1975, il co-fondatore di Intel Corporation Gordon Moore formula quella che diventerà nota come la prima legge di Moore. Una sorta di oracolo dei nostri tempi secondo il quale la complessità di un microcircuito dovrebbe raddoppiare ogni 18 mesi. E in fondo Moore non ci è andato poi così lontano. Ormai la capacità di calcolo di un qualsiasi smartphone è di gran lunga superiore a quella del mitico Apollo Guidance Computer, il calcolatore a bordo dell’Apollo 11 che nel 1969 guidò la compagine americana fin sulla Luna.

Insomma, il futuro non è più quello di una volta.

Anzi, a volte è come se ci sentissimo travolti dal nostro futuro.

E nel mondo della moda? Be’, in questa industria l’accelerazione si è tradotta in una vera e propria esplosione dei mercati, in un eccesso di offerta che ha sbaragliato qualsiasi domanda, in una competizione che si è arrotolata su se stessa fino a polverizzare contenuti, aziende e persino prodotti, che hanno perso la loro centralità, il significato all’interno di un brand, la rilevanza.

E così, l’obsolescenza programmata ha preso i tratti di una sorta di peccato originale, raccontando l’inizio di una storia in cui qualcosa è andato storto, in cui qualcosa ci è sfuggito di mano.

 

Ibridazione

Siamo nell’era delle mangrovie.

La scorsa edizione de L’Età Ibrida l’abbiamo chiusa proprio così: tra i rami di queste piante, sulle coste tropicali, in un ecosistema ibrido, in una zona di transizione all’incrocio tra l’acqua dolce e l’acqua salata. Ce lo spiegava sempre Luciano Floridi: anche la nostra vita sta mettendo radici in un habitat nuovo, in un luogo ancora da esplorare e di cui non conosciamo affatto i confini: il mondo digitale. Persino il mercato sta ridisegnando le mappe su cui navigare attorno a questo nuovo tipo di esperienza, alle contaminazioni che ne stanno nascendo, alle sue mutazioni.

Non è più possibile ragionare soltanto in termini di mondo analogico o di mondo digitale, perché questi due ecosistemi si compenetrano. E le azioni nell’al-di-qua si specchiano in uno spazio sempre più ingombrante dell’al-di-là.

 

Disintermediazione

Quando Tim Berners-Lee pubblica il primo sito internet della storia il suo sogno era quello di creare, nel mondo digitale, una realtà ispirata a un libro ben preciso: l’Enquire Within upon Everything.

Si trattava di un’enciclopedia universale che i genitori di Berners-Lee avevano nella loro casa appena fuori Londra. Un volume aggiornato in continuazione dove trovare informazioni di ogni tipo. Dalle regole del galateo alle ricette della nonna, dai consigli su come far sparire una macchia ai modi più sicuri per investire i propri risparmi.

Insomma, esattamente quel che oggi è il web.

Ormai ci sembra qualcosa di scontato, eppure la rete è riuscita a realizzare un sogno che neppure le più grandi civiltà del passato avrebbero osato immaginare.

Un accesso al sapere gratuito e diffuso, ma soprattutto un’architettura del sapere non più lineare, ma transdisciplinare, che si muove “tra le intersezioni delle discipline” come scrive Frans Johansson nel suo Effetto Medici.

La disintermediazione che ne è nata ha messo in crisi le élite novecentesche, ma di fatto ne ha create di nuove.  Per esempio ormai da molti anni Google è il sito più visitato al mondo perché tutti lo usiamo come motore di ricerca, ovvero come quella mappa indispensabile per navigare il web. Ma ancora. Grazie al web non siamo più soltanto ascoltatori, ma piuttosto nodi attivi di una rete globale, e in quanto tali produciamo contenuti che saranno letti da altri nodi. Contenuti che, però, nessuno filtra, nessuno corregge, nessuno ha tempo di verificare. Per questo siamo finiti nell’era della post-verità?

Nella moda, questo si è tradotto con una rivoluzione copernicana nel campo della progettazione e del design.

Un tempo le marche che facevano grandi prodotti riuscivano ad attrarre sempre più clienti, mentre ora è possibile sviluppare i propri prodotti soltanto se tante persone seguono il nostro brand.

Sostenibilità

La moda è tra le industrie più inquinanti al mondo.

E non è soltanto una questione dei mezzi di produzione, ma piuttosto una condizione ontologica. Per definizione la moda è ciclica, cresce quando produce eccessi, “consiste nell’imitare ciò che, in un primo momento, si presenta come inimitabile”, come scrive Roland Barthes. Per questo si sviluppa soltanto con le società tecnologiche e industriali, perché è strettamente legata ai mezzi di produzione capitalistici. E così, per molti anni, l’industria della moda ha vissuto di compensazione rispetto all’impatto che aveva sull’ambiente: provando a mettere una pezza dopo il buco.

Oggi però questo modello non funziona più. E’ necessario ripensare al valore di un brand oltre il suo fatturato, recuperando un’economia circolare, senza sprechi, in cui ogni sforzo viene rimesso in circolo.

Il punto non è soltanto come essere sostenibili, ma come rimanere competitivi essendo sostenibili.

 

Democratizzazione

L’enciclopedia globale di Tim Berners-Lee ha messo a dura prova le élite, è vero, ma ha anche reso il sapere alla portata di tutti, ha semplificato i contenuti, ha aperto le porte alla condivisione. Nell’industria della moda questo ha portato a un’apertura dei mercati, a marchi sempre più accessibili, a un appiattimento del gusto.

Una rivoluzione rispetto all’haute couture che ha caratterizzato la prima metà del novecento, un’industria radicata in un mondo ancora appannaggio di pochissimi.

In qualche modo è come se internet stia intessendo una trama nascosta tra le pieghe della nostra vita analogica. La traccia che lascerà il mondo della moda nei prossimi anni definirà il modello anche per tutte le altre industrie. Non sappiamo ancora cosa succederà, per adesso siamo ancora impegnati a cucire.

Per recuperare l’intervento completo di Giulio Stigliano

Un digital mentor molto…dolce

Siamo tre donne: Maria Grazia, Caterina e mamma Grazia.
Abbiamo rilevato da circa 15 anni la Pasticceria Rovida, proprio quella pasticceria che frequentavamo sempre durante la nostra infanzia. Il nostro intento era quello di accogliere i clienti con dolci fatti artigianalmente di ottima qualità.

Negli anni questa realtà è cresciuta conquistando la fiducia di molti clienti che hanno apprezzato i prodotti ed il calore del nostro locale. Siamo specializzati in piccoli lievitati (brioche) e grandi lievitati da ricorrenza (panettone) con lievito madre e nelle torte da credenza.

Abbiamo iniziato con le ricette ereditate dalla gestione storica di Rovida, degli anni 60. Alcune le abbiamo mantenute fedelmente; la crema pasticcera e la frolla, ad esempio, sono ricette originali conservate gelosamente, legate agli autentici e buoni sapori di una volta.

Questo mondo prezioso della tradizione lo abbiamo arricchito negli anni con proposte al passo coi tempi, ricercate, accostamenti accattivanti e tecniche moderne. Perché il mondo della pasticceria è in continua evoluzione e bisogna tenerne conto per migliorarsi.

Dopo qualche anno abbiamo affiancato alla produzione di dolci una proposta di cucina sana, semplice e gustosa con tante verdure di stagione e prodotti integrali. Ed una selezione di pani speciali preparati con farine di grani antichi a lievitazione lenta.

Oggi possiamo affermare che la nostra realtà artigianale e famigliare ha una ricchissima proposta di prodotti di alto livello. Ed è cresciuta molto negli anni grazie solamente al passaparola.

Ci siamo rivolti al Punto Impresa Digitale della Camera di commercio per sviluppare il nostro sito di e-commerce per poter commercializzare i nostri prodotti sia a Milano che in tutta Italia. Il nostro obiettivo oggi è farci conoscere al di fuori del milanese su tutto il territorio nazionale.

Quali erano le vostre richieste rivolte al Punto Impresa Digitale e quali obiettivi vi eravate posti?

Famiglia Argese (imprenditrici): Il nostro obiettivo era migliorare la nostra visibilità ed aumentare le vendite online. Già dal primo incontro, il DM  Patrizia Rossi ci illustrato quali fossero i punti deboli della nostra presenza online e che questa non rappresentava adeguatamente la nostra realtà.

I nostri obiettivi di crescita di vendita online potevano realizzarsi solo dopo una revisione dell’impostazione strategica del sito seguita da un’attenta sistemazione a livello grafico.

Quali azioni sono state messe in campo per raggiungere gli obiettivi?

Patrizia Maria Rossi (Digital Mentor): Ho analizzato le attività di comunicazione on e off line della Pasticceria Rovida evidenziando i punti di forza e di debolezza in relazione agli obiettivi prefissati.

Particolare attenzione è stata posta sul rendere sinergica l’immagine dell’e-commerce e dei social media con quella del punto vendita.  L’obiettivo era di trasmettere gli stessi valori di tradizione, cura, attenzione e continua ricerca.

Quali risultati sono stati raggiunti?

Famiglia Argese (imprenditrici): Abbiamo preso coscienza che il lavoro di marketing e di tutto quello che riguarda la presenza online della azienda deve essere fatto da professionisti del settore. E’ un lavoro complesso che faremo a piccoli passi.

Per prima cosa stiamo rifacendo il sito, in modo che racconti al meglio chi siamo e cosa facciamo, dando valore a tutti gli aspetti che curiamo nel nostro lavoro.

E’ stato utile fare una autoanalisi con il DM. Quando si lavora molto in una attività in proprio si è presi dal fare bene tutto: preparare dolci in modo ottimo ed organizzare la produzione, ampliare la scelta dei prodotti, capire cosa è apprezzato e dove il mondo della pasticceria e della cucina sta andando, aggiornarsi studiando nuove tecniche, accogliere i clienti e dare un ottimo servizio sia nel locale che nei catering, motivare i propri collaboratori verso un obbiettivo comune di crescita.

Rivolgerci a PID è stata l’occasione per fermarci e confrontandoci con il DM capire cosa la propria realtà è, per poterla comunicare al meglio, gli obiettivi da raggiungere e le caratteristiche che rendono unica la propria azienda.

Questa analisi che abbiamo fatto con il DM Patrizia Rossi crediamo ci aiuti a comunicare meglio online la nostra realtà, e ci sia servita anche a razionalizzare una attività estremamente complessa, permettendoci di diventare consapevoli di quali sono gli obiettivi prioritari e quelli a lungo termine.

Patrizia Maria Rossi (Digital Mentor): L’imprenditore ha in mente che cosa vuole ma a volte, impegnato nel suo lavoro, non trova il tempo e la corretta modalità per comunicare al meglio la propria offerta.

È stato stimolante lavorare con Rovida e trovare insieme la strada da seguire. Abbiamo definito il posizionamento, individuato le professionalità a cui affidare il lavoro esecutivo e trasmesso brief chiari per una corretta realizzazione delle attività di comunicazione.

Consiglierebbe, e perché, ad un'altra azienda di rivolgersi al PID?

Famiglia Argese (imprenditrici): Certamente consiglieremmo di rivolgersi al PID. La nostra esperienza sul campo ci ha insegnato che il mondo del “digitale” è pieno di figure che si improvvisano. Si rischia di perdere tempo e denaro inutilmente.

L’analisi del DM Rossi ci ha permesso di avere una guida che ci ha affiancato con i nostri fornitori. Ora siamo in grado di fare scelte che ci rappresentano perché sappiamo cosa vogliamo comunicare e su quali fronti dobbiamo lavorare.

Siamo sicure che questo lavoro ci permetterà di farci conoscere da più persone. Avremo una bella vetrina online impostata con tutte le caratteristiche per essere performante.

Trasformazione digitale: qual è il valore aggiunto che da professionista può dare ad un'impresa nella scelta delle strategie migliori da attuare?

Patrizia Maria Rosi (Digital Mentor):

Lavorando su mercati e prodotti differenti, il professionista può fornire spunti che a volte non sono immediatamente visibili a chi opera in azienda.

Inoltre, parlando del settore specifico della comunicazione, è importante definire le strategie ma, altrettanto, individuare e coordinare le giuste figure che possano “mettere a terra” il progetto seguendo strettamente le linee guida concordate con l’azienda. Il mondo della comunicazione è molto frammentato e spesso, per un’azienda, è difficile orientarsi e trovare la giusta risorsa.

Per usufruire gratuitamente del servizio di Digital Mentoring del Punto Impresa Digitale